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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2011 alle ore 08:30.
L'ultima modifica è del 25 maggio 2011 alle ore 08:48.

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Nel Pdl si nega con decisione che il voto dei ballottaggi avrà conseguenze politiche sul piano nazionale. È comprensibile questa ostinazione, che è anche un modo per farsi coraggio. Peraltro tutti sanno che non sarà così. A meno di una straordinaria rimonta di Letizia Moratti a Milano, le conseguenze sono inevitabili: addirittura nell'ordine naturale delle cose. Basta osservare il grado di furore che si respira nella Lega, nella sua base, nel suo mondo di riferimento.

Certo, una vittoria sanerebbe tutto e curerebbe le ferite. Ma una sconfitta, soprattutto una sconfitta grave in termini percentuali, farebbe crollare la diga dei risentimenti e del "non detto" o non detto abbastanza. Il che non significa che avremo una crisi di governo da un giorno all'altro. Su questo punto Bossi si muoverà facendo bene attenzione a dove mettere i piedi.

Berlusconi ha già fissato la linea del Piave: «Non esistono alternative a questa maggioranza e a questo governo». Il che definisce un recinto piuttosto stretto: nessuna eventuale trattativa con Casini e ovviamente nessun passo indietro del premier. Tuttavia, fin quando non si conteranno i voti nelle urne di Milano e anche di Napoli, queste rassicurazioni sono solo frasi fatte. Da martedì comincia un'altra storia e potrebbe essere una storia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto negli ultimi dieci anni. Di sicuro, una Lega che fosse sconfitta nei suoi territori (non solo a Milano, quindi, ma anche in altri centri della Lombardia) avrebbe la prova definitiva che l'abbraccio con il Pdl si è trasformato in un gravoso fardello. Il che sarebbe un oggettivo fattore di destabilizzazione.

«Non esistono alternative...» dice Berlusconi. Ma il partito di Bossi avrebbe urgente bisogno di uscire da questo schema che assomiglia a una camicia di forza se non è più foriero di successi e di legame con una base sociale. Al tempo stesso una caduta del governo a breve non avrebbe senso, a meno di non intravedere una soluzione di ricambio. Al momento sembra che non ce ne siano alle viste (qui Berlusconi, chiuso nel suo fortino, ha qualche ragione): elezioni anticipate o governi di "responsabilità nazionale" (larghe intese) rappresentano mere ipotesi per le quali oggi, inizio di giugno, non sono mature le condizioni.

D'altra parte la Lega non potrà restare con le mani in mano. Dovrà dare al suo popolo, come si dice in questi casi, un preciso segnale. Quale? Nel campo di un crescente dinamismo della politica economica, certo. Ma forse più che altro nel segno di una maggiore autonomia dal premier. E autonomia non vuol dire crisi di governo, bensì la ragionevole speranza che nel prossimo futuro il Carroccio tornerà alla sua identità originaria. Non più obbligato all'alleanza con un Berlusconi al tramonto, ma al contrario in grado di determinare il suo futuro politico.

Solo la percezione che la Lega recupera la propria natura, liberandosi da certi orpelli, potrebbe pacificare quel mondo nordista oggi in ebollizione.
Un appoggio esterno al governo sarebbe senza dubbio il più forte segnale di autonomia da parte di Bossi. Ma anche mettere sul tavolo una proposta di riforma elettorale lo sarebbe. Il motivo è evidente. In questi anni Lega e Pdl hanno cementato la loro alleanza con il premio di maggioranza. Una rinuncia anche parziale a tale premio, pur senza delineare un vero ritorno al proporzionale, sarebbe una svolta quasi rivoluzionaria. La fine di un'epoca e proprio in nome dell'autonomia. Vedremo se gli indizi di questi giorni avranno degli sviluppi. Da lunedì sera il quadro sarà più chiaro.

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