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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2011 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 25 maggio 2011 alle ore 08:52.

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Per lungo tempo, l'idea dominante riguardo la diseguaglianza è stata quella di un andamento ad U rovesciata: cresce nelle prime fasi dello sviluppo per poi decrescere nelle fasi più avanzate. Questa teoria portava a considerare legittima una certa crescente diseguaglianza quando decolla lo sviluppo. Il grande economista Albert Hirschman esemplificava la cosa con la metafora dell'ingorgo: se siamo bloccati in autostrada e a un certo punto vedo che le auto della corsia accanto iniziano a muoversi, anch'io sono felice, perché penso che in breve anche la mia corsia si muoverà.

Si è anche a lungo pensato che esistesse un compromesso necessario tra equità (eguaglianza) e crescita (efficienza): essendo i talenti distribuiti in modo ineguale nella popolazione, occorre lasciare ai pochi molto efficienti crescere più della media. Gli effetti di questa maggiore crescita di pochi ricadranno anche sui più poveri, sotto forma di trasferimenti, tasse, e beni pubblici e meritori (scuola, sanità, welfare ecc.).

In realtà, stando all'ultimo rapporto Istat sul sistema Paese che afferma come il rischio povertà o esclusione sociale riguardi circa 15 milioni di italiani (24,7%), queste teorie non sembrano avere raccontato la storia reale. Dopo una fase di diminuzione, la disuguaglianza ha infatti ricominciato ad aumentare di nuovo negli ultimi due decenni: il nostro è oggi uno dei Paesi europei con il più alto indice di diseguaglianza (indice di Gini). Inoltre, dati provenienti da diversi Paesi mostrano che il rapporto tra crescita e diseguaglianza è più complesso, e spesso diventa conflittuale.

In società semplici e statiche, come era quella italiana fino a pochi decenni fa, Stato e famiglia svolgevano i principali ruoli nella creazione e redistribuzione della ricchezza. E il momento dell'aumento delle "dimensioni della torta" (efficienza) poteva essere più importante di quello della "divisione delle fette" (equità). Ciò che però sta dicendo la storia recente della società italiana post-moderna è che in un contesto più dinamico, con meno famiglia e meno Stato, non è più vero che l'aumento della torta aumenti la dimensione di tutte le fette. Infatti, da una parte, negli ultimi vent'anni la quota del reddito prodotto destinata al lavoro (salari) è diminuita molto rispetto alla quota andata alle rendite finanziarie e alle rendite in generale (anche per precise scelte fiscali). Dall'altra, se come in Italia la povertà relativa aumenta soprattutto tra le famiglie giovani, è facile capire che i consumi ne risentono seriamente, e con essi la crescita del Paese. Che fare allora?

Negli anni 50 e 60 l'Italia del miracolo economico ha saputo includere milioni di persone rimaste fino ad allora ai margini della vita economica, e quindi civile. La fabbrica, l'immigrazione, lo Stato sociale, hanno svolto assieme una funzione di riduzione dell'ineguaglianza sostanziale, della povertà assoluta e relativa e di aumento della ricchezza nazionale e individuale. Ma questo miracolo, assieme economico (crescita) ed etico (inclusione e eguaglianza), fu possibile anche e soprattutto perché furono garantiti a tutti servizi sanitari di base, educazione, pensioni e diritti umani. Oggi, in una società post-moderna e frammentata, questi servizi e diritti di base sono sempre meno garantiti a tutti, e invece occorre iniziare ad affermare con forza che debbono diventare presto diritti umani universali. Pensiamo ai nuovi poveri, agli immigrati, ai vecchi non autosufficienti senza rete famigliare, alle famiglie giovani con bambini.

Senza questo aumento dell'uguaglianza sostanziale tra i cittadini la crescita non può riprendere, perché manca non solo la domanda di beni di consumo, ma anche l'entusiasmo e la gioia di vivere dei giovani, senza i quali nessun Paese è mai cresciuto. Poiché quando passa qualche tempo e la corsia del vicino continua a correre e la tua resta ferma, gli automobilisti iniziano a voler passare nell'altra corsia, il traffico si complica di nuovo, si creano nuovi ingorghi, e a qualcuno viene la tentazione di passare illegalmente nella corsia d'emergenza.

Infine - come dimostra il nuovo Better life index reso noto ieri dall'Ocse - gli studi sulla diseguaglianza e sulla povertà dovrebbero essere profondamente rivisti, tenendo conto delle conquiste fatte dalla scienza economica. Innanzitutto, come accennato, nelle misure della povertà e della diseguaglianza al reddito individuale e famigliare occorre aggiungere i beni pubblici, poiché avere 1.000 euro a Trento (con asili nido, trasporti pubblici efficienti, ospedali vicini e funzionanti ecc.) è ben diverso che averli nell'interno della Basilicata. Inoltre, come ci ha insegnato soprattutto Amartya Sen, la povertà e la ricchezza non è tanto una faccenda di reddito e di beni, ma di capacità di fare, di come la gente è capace di trasformare le risorse, poche o tante che siano, in attività, libertà, sviluppo.

E tutto ciò ci riporta al tema delle relazioni, dei rapporti, dei legami che tengono assieme una città e un Paese, che oggi in Italia sta diventando sempre più tenue; e senza ricreare un legame che si chiama nuovo patto sociale, nessuna riduzione della diseguaglianza né aumento della ricchezza nazionale saranno possibili.
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