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Questo articolo è stato pubblicato il 02 giugno 2011 alle ore 07:40.

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È improprio e fuorviante trasformare i referendum sul nucleare e sull'acqua in un'arma letale da sparare contro Silvio Berlusconi. Ma è inevitabile che questo accada. Dopo la decisione della Corte di Cassazione, i tre referendum (nucleare, acqua e il terzo, il più politico, contro il legittimo impedimento del premier) formano una massa critica che offre all'opposizione una singolare opportunità. Si potrebbe dire che per il governo piove sul bagnato.

È il declino del premier a fare da sfondo agli eventi che si susseguono negli ultimi giorni. Prima la disfatta della maggioranza nei ballottaggi e poi questa sentenza della Cassazione, espressa in termini che pochi avevano previsto. Se non sapessimo che i magistrati della suprema Corte giudicano in punta di diritto, verrebbe da dire che anch'essi risentono del vento del cambiamento. Nei fatti il via libera al referendum sul nucleare è una gran brutta notizia per Palazzo Chigi.

Non tanto perché la consultazione popolare rischia di uccidere un morto (l'energia nucleare in Italia) o perchè condizionerà la futura politica energetica, come sostiene il ministro delle Attività produttive. Ma per la semplice ragione che il voto sul nucleare rappresenta una spinta non indifferente al raggiungimento del «quorum» referendario (50 per cento dei votanti più uno).

A metà giugno nessun quesito sul legittimo impedimento permetterebbe da solo un simile miracolo. E nemmeno il tema dell'acqua, peraltro controverso e pieno di ambiguità, sembra in grado di mobilitare una gran massa di elettori. Con il nucleare è diverso: il detonatore è innescato, al di là del merito del quesito. Per cui all'improvviso i tre referendum di giugno diventano la nuova minaccia mediatica, prima ancora che politica, pendente sul centrodestra.

C'è una logica in tutto questo. Le firme sono state raccolte soprattutto da Di Pietro, con l'appoggio di Vendola e poi con il sostanziale avallo di Bersani. Oggi il triplice referendum è un cannone pronto a sparare contro gli spalti governativi. Ma è anche un mastice che lega fra loro i destini di Partito Democratico, Italia dei Valori e Sinistra e Libertà. L'asse fra i tre, uscito consolidato dalle amministrative, cerca nel voto referendario la consacrazione. Chi potrà mai rimetterlo in discussione, se il 13 giugno si sarà raggiunto il «quorum»?

Senza dubbio il referendum è visto dall'opposizione, con rare eccezioni, come il secondo tempo del voto «arancione» nelle città. È un errore? Può darsi. Ma è anche la prova che qualcosa si sta muovendo nel paese e la politica non resiste alla tentazione di fare il «surf» sull'onda lunga delle trasformazioni in atto. Del resto, persino l'Udc di Casini, che sui quesiti ha idee diverse da quelle di Vendola e Di Pietro, ha deciso di prendere parte alla consultazione.

Si capisce perché. Chi si rifugia nell'astensione e invita gli italiani ad andare al mare, come già sta facendo il Popolo della Libertà, otterrà solo il risultato di iscriversi al fronte degli sconfitti. Per tentare di disinnescare la carica politica dei referendum, l'unico modo è partecipare, discutendo in modo civile. Anche perché dopo aver contato i voti la coalizione «referendaria» andrà governata. La scommessa di Bersani consiste nell'utilizzare gli umori del paese per metterli al servizio di una prospettiva di governo. Il rischio, ovviamente, è che succeda il contrario, in un tripudio di bandiere rosse e arancioni.

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