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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2011 alle ore 08:30.
L'ultima modifica è del 03 giugno 2011 alle ore 09:23.

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La proposta è tutt'altro che semplice: seguire la via del Dragomanno. Imitare colui che nella tradizione dell'Impero ottomano faceva da interprete tra le lingue orientali e quelle europee per garantire il significato dei messaggi e diventare il tramite degli equilibri politico-diplomatici dei sultanati. Una cerniera su cui costruire la modernità, una ricerca del significato dell'agire umano capace di essere cultura e quindi di fare cultura.

L'itinerario ambizioso è quello di Armando Marchi, il fondatore dei Barilla Lab, prematuramente scomparso nel 2008 e di cui ora sono stati raccolti scritti solo in parte già editi (Il Dragomanno e il dilemma del senso). Come scrive Guido Barilla nella presentazione: «Armando incarnava la diversità, intesa come spirito critico, profondità intellettuale, respiro culturale che rovescia le convenzioni organizzative e obbliga a ripensare le modalità di lavorare e di guardare al futuro».

Marchi era un intellettuale calato nel mondo dell'impresa capace di sentire come missione la ricerca del senso e insieme del significato dell'azione umana in un'organizzazione, come quella aziendale, che troppo spesso sembra aver trasformato la responsabilità nei vincoli delle formalità e delle procedure. La crescita dell'economia dipende dalla somma di scelte di una moltitudine di persone e imprese. Ma le vie della ripresa, dopo la prima grande crisi del millennio, vengono quasi sempre descritte come collegate al quadro macroeconomico e quindi ai rischi delle finanze pubbliche, alla stabilità delle monete, all'andamento dei prezzi delle materie prime con il petrolio in primo piano. Eppure c'è una grande dimensione, non altrettanto visibile, a livello di microeconomia: la realtà delle strategie aziendali che appare necessario ridefinire per cogliere all'interno del grande cambiamento dei mercati tutte le opportunità che la stessa crisi può aver creato.

L'impresa, soprattutto se medio-grande, si è trovata negli ultimi decenni a confrontarsi con l'apertura della globalizzazione, l'improvvisa comparsa di nuovi concorrenti, ma insieme l'aprirsi di nuove possibilità e di nuovi mercati. E poi a fare i conti con la necessità di drastici mutamente di strategie. Con un rischio: quello di diventare sempre di più associazione d'interessi individuali e sempre meno "comunità" di obiettivi e intenti.

Proprio in una situazione come quella attuale l'azienda dovrebbe riscoprire il valore di una costruttiva motivazione delle persone: «Inserire - scrive Marchi - l'agire economico e lavorativo in una catena che porta al bene comune, producendo comportamenti dettati dalla responsabilità, e soprattutto liberi d'interpretare il proprio ruolo seguendo attitudini e aspirazioni personali e non imposte».

Non c'è posto per il vecchio paternalismo padronale, ma nemmeno per la tentazione di poter misurare tutto pensando che la soluzione di una criticità sia solo in una diversa organizzazione. In fondo si tratta banalmente di pensare che le persone non sono un problema, ma possono essere parte della soluzione. Una prospettiva che peraltro gran parte delle aziende italiane pratica da sempre, magari silenziosamente. Perché la responsabilità sociale, il legame con il territorio, la capacità di valorizzare il lavoro fanno parte di una tradizione di capitalismo familiare in cui l'innovazione, quella vera, diventa una necessità, ma anche una risposta coerente con l'etica dell'impresa capace di valorizzare insieme la persona e lo sviluppo.
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