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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2011 alle ore 17:46.
È d'altra parte evidente che chi gode del controllo cerca di impedire o ritardare una qualsiasi vera riforma che lo metta in discussione. Riforma che attraverso un più trasparente esercizio del potere e una maggiore tutela e partecipazione delle minoranze metterebbe in discussione le strutture societarie gerarchiche e opache, sovente eccessivamente burocratiche proprio a causa di frastagliate regole che finiscono per tutelare solo coloro che detengono potere e controllo e che da almeno trent'anni sono qualificati come "tecnostruttura", secondo una felice espressione di J.K. Galbraith.
La contendibilità delle società e la regolamentazione delle offerte pubbliche d'acquisto (Opa) poteva sembrare una garanzia, sia per cacciare gli amministratori inetti o avidi, sia per dare alla società maggiore spinta innovativa. E in questo senso è certamente orientata la recente disciplina delle Opa emanata dalla Consob a tutela degli azionisti di minoranza, nonché le nuove disposizioni sulla partecipazione dei soci alle assemblee. Ma il resto rimane immutato.
L'eguale trattamento degli azionisti pareva peraltro caposaldo fondamentale della seconda direttiva comunitaria, anche se la sentenza "Audiolux" della Corte di giustizia europea del 15 ottobre 2009 ha poi negato che esista al riguardo un principio generale di diritto, pur basato sul concetto di "one share, one vote".
In verità, anche in altri Stati membri dell'Unione, come la Francia, la situazione è identica. Una legge che data dal 1933, ancora in vigore e con ampia applicazione fra le quotate, dà la possibilità alle società di adottare una norma statutaria che conceda un "doppio voto" per ogni azione ai soci che abbiano conservate le azioni in loro nome per almeno due anni. Il doppio voto è legato all'azionista e non all'azione, sicché non può essere trasferito con la stessa. La giustificazione spesso avanzata è che lo scopo della norma sia quello di garantire la stabilità e di proteggere la società dagli investitori che abbiano interessi finanziari a breve termine. In realtà la norma è divenuta uno strumento di rafforzamento delle strutture di controllo, ai danni del mercato.
Uno strumento di stabilità rispettoso del mercato esiste invece nel nostro ordinamento, sia pure in misura limitata, ma esemplare. Si tratta delle fondazioni bancarie, sapientemente descritte in un recente volume di Fabio Corsico e Paolo Messa, Da Frankenstein a principe azzurro (Marsilio 2011) con presentazioni di Carlo Azeglio Ciampi e Giuseppe Guzzetti. In un momento di crisi economica quale quello che stiamo attraversando, l'istituto delle fondazioni bancarie costituisce una novità culturale di straordinaria efficacia e certamente ha salvaguardato il sistema bancario dalle derive finanziarie dalle quali è partita la crisi. Esse garantiscono, infatti, la stabilità delle banche, la loro indipendenza, l'impossibilità del tunneling anche in caso di controllo, e soprattutto sono, a parer mio, quali soggetti non profit, destinate a sfatare, e questa volta nel bene, il mito dei due settori separati: il privato e il pubblico, la cui commistione è altre volte nel male fonte di illeciti e di corruzione. Un riferimento va fatto alla legislazione dei Paesi scandinavi, dove le fondazioni non profit sono favorite e giocano un ruolo significativo come azionisti di controllo, al fine di aiutare la crescita delle imprese.
Da questi spunti è forse possibile tentare una seria riforma del diritto societario, dell'impresa e dei mercati finanziari, alla quale stanno lavorando anche varie organizzazioni internazionali, ma che risulta più che mai urgente per la nostra ripresa.
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