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Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2011 alle ore 09:05.
L'ultima modifica è del 13 giugno 2011 alle ore 09:43.

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Se è vero che il lavoro è una delle maggiori preoccupazioni per i giovani d'oggi, è altrettanto vero che appare sempre più necessario superare i vecchi schemi. La quarta rivoluzione industriale è infatti nello stesso tempo, e paradossalmente, la rivoluzione della globalità, con l'interconnessione delle attività in tutto il pianeta e la rivoluzione del protagonismo personale.

E allo stesso modo ci stiamo muovendo a grandi passi verso una logica in cui alla mansione viene sostituita la competenza, la procedura viene integrata con la responsabilità, la gerarchia viene sostenuta dalla partecipazione. Con una tendenza di fondo: quella di superare il concetto di "posto" di lavoro per arrivare a una logica che, ovviamente senza rinunciare alla necessaria componente di reddito, privilegia la dimensione del "percorso", in cui formazione e prestazione si integrano in entrambi i momenti della vita della persona.

Uno dei maggiori esperti del mondo del lavoro, Richard Donkin, commentatore del Financial Times, ha delineato con grande efficacia nel libro "Il futuro del lavoro" (Edizioni Il Sole 24 Ore) le prospettive di un sistema indubbiamente complesso, ma che ha al fondo una grande dose di costruttivo ottimismo. Questo perché, spiega Donkin, le nuove tecnologie e tutte la altre forme di memoria, calcolo e soprattutto comunicazione avranno la grande capacità di creare lavoro in misura molto maggiore di quanto ne venga distrutto o superato.

«La differenza tra i giovani contemporanei e la generazione degli anni 60 - scrive Donkin - è che oggi essi hanno di fronte molte più opportunità di un tempo per decidere della propria vita». Poi magari possono scegliere di fare i "bamboccioni", ma resta il fatto che in questa generazione ci sono non solo i fondatori di Google e di Facebook, ma anche persone che, pur senza salire sul podio della celebrità, hanno comunque costruito un nuovo modo di affrontare la realtà.

La possibilità dei giovani di affrontare con metodi nuovi un mondo in profonda trasformazione deve comunque fare i conti anche con un'organizzazione sociale che sembra adeguarsi con disarmante lentezza. Le grandi aziende, il sistema educativo, la legislazione, i sistemi pensionistici e i dogmi dell'economia continuano a fare riferimento a un modello, sostiene Donkin, inadeguato «alla fluidità e al dinamismo delle idee e delle conoscenze distribuite attraverso internet».

Può essere una frase fatta dire che non si possono affrontare i nuovi problemi con i vecchi modelli, ma è quanto sta avvenendo con le attuali rigidità verso il cambiamento e che sono state efficacemente sintetizzate con lo slogan "troppo ai padri, poco ai figli". E per dare un nome alle cose, queste rigidità sono le opposizioni all'innalzamento dell'età pensionabile, la difesa dei modelli contrattuali rigidi, le legislazioni sulle professioni che mantengono anacronistiche barriere all'ingresso, la scarsa dignità che viene riservata alle occupazioni manuali, i limiti all'apprendistato nel rapporto tra scuola e lavoro.

Il problema è quello di entrare nella logica di una società in cui la ricchezza non sta solo nella produzione di beni materiali o di servizi codificati, ma nella capacità di relazione a ogni livello. E si potrà anche arrivare, come in qualche caso già avviene, a far diventare una continua missione creativa l'uso flessibile del tempo.

I passi da fare non sono pochi, né facili. Ma il punto di partenza è garantire fiducia alle nuove generazioni che non devono essere ingabbiate in logiche sociali costruite sulle fabbriche del vapore.
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