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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2011 alle ore 10:17.

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La crisi del debito greco, che all'inizio era pienamente gestibile, è ormai praticamente fuori controllo. I rischi connessi stanno assumendo proporzioni sistemiche. Di chi la colpa di tale colossale fallimento? Molto più delle manchevolezze del Governo Papandreou, che anzi ha dimostrato coraggio politico nello spingere dolorose misure di aggiustamento, ha pesato una gestione inetta della crisi da parte dei partner europei. Una performance fallimentare che induce a riflettere se il Vecchio continente meriti di dirigere, ancora una volta, la principale istituzione anti-crisi dell'economia mondiale, il Fondo monetario internazionale. La performance degli ultimi diciotto mesi indicherebbe di no.
Si risalga appunto a un anno e mezzo fa, ai primi mesi del 2010, quando il buco di bilancio lasciato in eredità al nuovo Governo greco diede avvio alla crisi. La reazione europea, durata poi vari mesi, fu quella, prima, di negare che vi sarebbe stato bisogno di aiuti ufficiali, poi di sostenere che questi avrebbero potuto semmai essere forniti solo come ultima ratio e a condizioni finanziarie punitive, e che in ogni caso era da evitare ogni ricorso all'Fmi da parte di un Paese dell'Eurozona. Ognuno di questi punti era errato, ma l'ultimo appare particolarmente pernicioso per chi aspira a dirigere appunto l'Fmi.

La contrarietà a un ruolo del Fondo veniva soprattutto dalla Francia e Bce. Si ritiene che la Bce fosse animata dal comprensibile desiderio di forzare i politici europei ad assumersi le proprie responsabilità, piuttosto che delegarle ad un'istituzione d'Oltreatlantico. Ma nessuna intenzione altrettanto nobile si può attribuire ai Paesi che osteggiavano l'intervento del Fondo. Gli argomenti avanzati si riferivano piuttosto all'"umiliazione" che ne sarebbe derivata, e all'ingerenza nella governance dell'Eurozona da parte di un'organizzazione dipinta come la lunga mano di Washington. Non sembravano rendersi conto, gli europei, dell'insostenibilità di queste tesi da parte di un gruppo di Paesi che nel contempo continuava a difendere ostinatamente la propria sovra-rappresentanza nell'istituzione e che non pareva percepire alcunché di umiliante o ingerente nel giudicare i programmi di aggiustamento di altri Paesi in difficoltà (in quel periodo Pakistan, Ucraina e Islanda). E mentre si perdeva tempo in meschine gelosie istituzionali, i differenziali d'interesse greci continuavano ad ampliarsi. Il tergiversare ha così notevolmente aumentato i costi della crisi, sia in termini di aggiustamento che di finanziamento. E ciò continua tuttora: la lentezza decisionale europea sta spingendo l'Fmi a fare violenza delle sue procedure abituali, dichiarando la propria disponibilità a rilasciare la prossima tranche del credito alla Grecia pur in assenza delle garanzie di finanziamento normalmente richieste.

Questa perdita di tempo non è nemmeno stata usata per avanzare su un'altro fronte chiave: quello di un risanamento deciso delle banche della zona euro. L'esperienza di tutte le precedenti crisi debitorie ha posto in evidenza lo stretto legame tra crisi del debito sovrano e crisi bancaria: non si risolve l'una senza affrontare con decisione l'altra. Si è invece preferito procedere in punta di piedi, escludendo dagli stress test bancari qualsiasi ipotesi di ristrutturazione del debito sovrano. L'esclusione di quello considerato dai mercati come maggiore rischio ha minato la credibilità degli stress test già svolti e, purtroppo, anche di quelli tuttora in atto. E, nel contempo, non si è posta la pressione dovuta per la ricapitalizzazione delle banche deboli o più esposte. Col risultato che oggi si ritrova tra i maggiori oppositori della inevitabile ristrutturazione del debito greco di nuovo la Francia, presumibilmente perché le proprie banche – Bnp in testa – sono le più esposte verso la Grecia.

Infine, durante l'intera crisi, i leader europei si sono mostrati sordi alla necessità di parlare con una sola voce ai mercati, in modo da formare le aspettative in un clima il più possibile pacato. Ha imperversato invece la cacofonia di messaggi, aumentando la confusione e l'incertezza degli operatori e, di riflesso, i differenziali d'interesse. Gli avvenimenti degli ultimi giorni ne sono un esempio palese.
Quanto detto non intacca di per sé le notevoli qualità personali e professionali di Christine Lagarde, la candidata a nostro avviso più forte dopo l'esclusione di Stanley Fischer. Ma questo nonostante sia la candidata dell'Europa, che questo onore non si merita. E nella speranza che, una volta in carica, le poste in gioco dei singoli Paesi europei e le posizioni errate assunte in questi lunghi mesi vengano definitivamente messe da parte – nell'interesse della Grecia, degli altri paesi a rischio di contagio (Italia non esclusa), e della comunità internazionale nel suo complesso.

alessandro.leipold@lisboncouncil.net

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