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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2011 alle ore 09:09.

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Quella di un contratto europeo per l'industria non è una idea nuova. Più di una volta è stata lanciata dai sindacati europei. Ma ogni volta la proposta ha vita breve e rientra velocemente nel cassetto da cui è uscita. Paradossalmente sono gli stessi sindacati nazionali, soprattutto quelli più forti e di più lunga tradizione (come quelli tedeschi) a mostrare freddezza (se non proprio contrarietà) di fronte a questa prospettiva. Se non altro per non rinunciare al loro ruolo, fortemente radicato nel Paese di appartenenza. D'altra parte le rappresentanze di Bruxelles sono da sempre una specie di appendice dei sindacati nazionali e sono ridotte a svolgere un ruolo marginale. Spostare il centro della contrattazione collettiva a Bruxelles significherebbe capovolgere letteralmente gli attuali rapporti di forza. Occorrerebbe un capovolgimento istituzionale. E i sindacati non sono i più indicati a fare rivoluzioni di questo tipo.

D'altra parte le relazioni sindacali e soprattutto la contrattazione collettiva si sono sviluppate all'interno di ciascun Paese, assumendo caratteristiche specificatamente nazionali. Gli attori sociali e il modo di organizzarsi, i tempi e i contenuti dei contratti collettivi, i rapporti con la contrattazione locale, i rapporti tra la legge e i contratti, solo per fare alcuni esempi, assumono in ciascun Paese caratteristiche proprie e cercare di uniformarle rischierebbe di stravolgere le tradizioni e i valori specifici e condivisi all'interno di ciascun Paese. Tentare di uniformare tutto questo complesso di norme e di prassi comporterebbe un lavoro immane, tale da scoraggiare chiunque, soprattutto quando i diretti interessati, i sindacati nazionali, non ne vogliono sapere.
Né sarebbe pensabile limitare il campo di applicazione del contratto unico europeo a qualche contenuto specifico, sia pure di qualche rilevanza. Come ad esempio i livelli retributivi. A questo si opporrebbero non solo le associazioni dei datori di lavoro (come di fatto si oppongono), ma le stesse autorità nazionali ed europee. E lo farebbero sulla base di elementari principi di economia. Come si potrebbe giustificare infatti un contratto europeo per l'industria che fissasse (sia pure con gradualità e in prospettiva) livelli retributivi (sia pure minimi) uguali in tutti i Paesi europei? Come farebbero il Portogallo, la Grecia, la Spagna e anche l'Italia a pagare gli stessi salari della Germania? Si potrebbe pensare, con molto ottimismo che, una volta fissati salari uguali, anche i livelli di produttività si avvicinerebbero di conseguenza. Ma la conseguenza molto più probabile sarebbe invece un'altra e cioè quella di una divaricazione pericolosissima dei costi del lavoro per unità di prodotto.

Verrebbe accelerato e aggravato un fenomeno che, purtroppo, è già in corso. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: perdita di competitività da parte dei Paesi del Sud Europa, che non hanno più a disposizione la svalutazione delle loro monete per recuperare quella competitività che nel frattempo hanno perso per strada.
Più che un contratto unico, occorrerebbe qualche cosa di diverso. Come ad esempio un coordinamento, svolto soprattutto a livello di area dell'Euro, teso ad allineare la dinamica del costo del lavoro con quella della produttività, in ciascun Paese. Da questo punto di vista avrebbe senso un coordinamento non solo a livello di settore produttivo, ma anche a livello di intereconomia, in grado di rendere maggiormente omogenei gli andamenti dei costi del lavoro per unità di prodotto nei diversi contesti nazionali. E tutto questo per evitare che si aggravi il fenomeno cui si accennava sopra e cioè che il Paese maggiormente virtuoso sul fronte della crescita della produttività (la Germania) aumenti eccessivamente il livello della propria competitività, in modo del tutto incompatibile con il mantenimento di una moneta unica.
In questa prospettiva il contratto nazionale di lavoro potrebbe perdere importanza in misura ancora maggiore. Non solo verso il basso per dare spazio alla contrattazione aziendale. Ma anche verso l'alto, a livello europeo, per adeguare la dinamica salariale complessiva agli equilibri macroeconomici dell'area dell'euro. Il che non sarebbe proprio la stessa cosa di un contratto unico europeo per l'industria.

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