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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2011 alle ore 09:40.

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Per Spagna e Italia, dimentichiamo l'acronimo Pigs e passiamo a Is. Nella crisi dell'Europa periferica (Grecia, Irlanda e Portogallo) non ha più senso accomunare le due principali economie del Sud Europa ai Paesi già colpiti da crisi finanziarie e debitorie. E le elezioni spagnole, con il crollo del Psoe, segnalano che la Spagna potrebbe uscire prima, se non meglio dalla stagnazione. Perché il suo sistema politico favorisce i cambiamenti anche in politica economica, come avvenuto nel passaggio da Felipe Gonzáles a José María Aznar nel 1996 quando si pose un argine all'indebitamento del settore pubblico e si completò la creazione di un mercato del lavoro dualistico. La fine dell'era Zapatero è dovuta all'inerzia socialista sul versante delle riforme economiche, dettata dalla convinzione di continuare a vivere sulle fortune dell'era Aznar.

Mentre per Grecia e Portogallo le previsioni parlano di profondo rosso nel biennio 2011-12, per Spagna e Italia Morgan Stanley prevede segni positivi: 0,9 e 1,5 per la Spagna e 0,8 e 0,7 per l'Italia. I cugini iberici sembrano uscire con maggior abbrivo dalla recessione. Nel 2007, mentre Olivier Blanchard pronosticava la Spagna come candidata per una delle "recessioni a rotazione" dell'area euro, il governatore del Banco de España scriveva che il disavanzo delle partite correnti, già al 10% Pil, si poteva correggere con segnali di una maggior competitività delle produzioni iberiche. Avevano torto entrambi. La recessione ha colpito tutti i Paesi europei, anche se per cause e con modalità e tempi diversi. Mentre il deficit corrente spagnolo si è ridotto al 4% circa nel 2009, ma più grazie all'aumento del tasso di risparmio delle famiglie che è balzato dall'11% del reddito disponibile nel 2007 al 19% nel 2009. Un aggiustamento dal lato delle quantità più che dei prezzi, visto che la dinamica della produttività spagnola ristagna dal 1996 e i costi unitari relativi scendono con lentezza.

Alcuni elementi di fragilità enfatizzati oggi per la Spagna sono condivisi con altri Paesi. Vero che il debito fiscale delle regioni preoccupa, anche per la contabilizzazione ritardata di spese e l'utilizzo di strumenti derivati, ma a oggi esso si attesta al 10% del Pil e vi sono restrizioni all'emissione di nuovo debito senza l'autorizzazione del governo centrale. L'Andalusia non è la California. Vero che alcune Casse di risparmio vanno ricapitalizzate per sopperire alle perdite connesse con il settore immobiliare, ma le grandi banche commerciali sembrano solide. Vero che alcune prestazioni del welfare sono poco sostenibili, ma l'età pensionabile è stata appena portata a 67 anni mentre nella florida Francia con molte tensioni si è giunti a 62. Il sistema educativo va migliorato: in Spagna il 19,5% dei 15enni dimostra "scarsi risultati nella lettura" secondo l'Ocse (in Italia il 21). Tra le prime 200 università del mondo due sono spagnole e nessuna italiana, per il World University Ranking del Times Higher Education.

L'alta disoccupazione è la ferita di cui soffre la società iberica, con pochi eguali in Europa. Il 21,3% è un'enormità, tra i giovani al di sotto di 25 anni siamo quasi a un disoccupato su due (anche se i giovani senza impiego per oltre un anno sono il 30%, da noi il 44). La disoccupazione è figlia di due elementi. Un mercato del lavoro non solo dualistico, ma con un divario enorme nei costi di licenziamento tra protetti e precari, e regole permissive per assunzione di precari. Uno studio di Bentolila e altri sostiene che sovrapponendo una legislazione del lavoro come quella vigente in Francia all'economia spagnola, la metà circa del picco di disoccupazione non si sarebbe materializzato, pur con gli stessi shock negativi. Se invece del numero di occupati guardiamo alle ore lavorate, la perdita di lavoro in Spagna non è stata diversa che altrove. Si è concentrata sui lavoratori non protetti, gli indignados: il prossimo governo spagnolo si dovrà concentrare su una revisione dei meccanismi d'impiego. Il secondo elemento è la parabola del settore immobiliare: da solo spiega quasi 5 punti dell'aumento della disoccupazione. Ma anche qui, pur se occorre rivitalizzare il mercato degli affitti come promette il Partito Popolare, siamo lontani dalla bolla irlandese.

smanzocchi@luiss.it

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