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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2011 alle ore 07:40.
L'ultima modifica è del 28 giugno 2011 alle ore 08:29.

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È passato poco più di un anno dall'inizio della crisi greca ed è evidente che la sua gestione non è stata delle migliori, caratterizzata da incertezze e ritardi, limitato coordinamento delle politiche economiche, concessione di prestiti molto onerosi, imposizione di politiche deflattive eccessive e politicamente insostenibili, annunci avventati,

proposte che manifestano chiare vocazioni punitive (ancorché autolesioniste) nei confronti di responsabili veri o presunti della crisi e di interi Paesi col risultato di aggravare la crisi e indirizzare non pochi Paesi della Eurozona verso il rischio di default non governati. Ma ciò che più preoccupa è che tali comportamenti si sono basati piuttosto che su un'analisi economica corretta, sulle paure e le pulsioni irrazionali delle popolazioni (e populiste dei Governi).

Come tutti ricordano, la crisi dell'euro è partita dalla Grecia e si è successivamente estesa all'Irlanda e al Portogallo, in misura minore alla Spagna (che ha beneficiato dall'avere, all'inizio della crisi, uno stock di debito ridotto), e ora rischia di estendersi a Belgio e Italia. Se si fosse guardato con freddezza e lucidità alle dimensioni reali del fenomeno e alle sue vere cause sarebbe stato (e sarebbe ancora) possibile evitare ripercussioni e conseguenze drammatiche come quelle che si sono avute. Infatti l'ammontare del debito dei Paesi in maggiore difficoltà (Grecia , Irlanda e Portogallo), eccedente il 60% del loro Pil, risulta pari a 350 miliardi e quindi a meno del 4% del Pil dell'Eurozona e a meno il 5% del suo debito pubblico. In altre parole si tratta di una crisi innescata da grandezze pressoché trascurabili e che tuttavia rischia di provocare ripercussioni sistemiche.

Sarebbe stato sufficiente che i 17 Paesi dell'Eurozona avessero concordato di sterilizzare questa eccedenza di debito, trasformandola in eurobond, garantendola e finanziandola collettivamente, per evitare la divaricazione degli spread, e mettere al sicuro dall'attacco dei mercati la moneta unica. Al tempo stesso, le nuove regole di governance europea, e ulteriori impegni richiesti (imposti) ai Paesi devianti avrebbero consentito - a medio termine - sia il riequilibrio delle finanze pubbliche di questi Paesi, sia il rimborso di eventuali sussidi impliciti da questi ricevuti.

Si è invece seguita un'altra via che ha escluso ogni coinvolgimento collettivo dell'Unione sottolineando invece la responsabilità individuale dei Paesi e la necessità che ciascuno si facesse carico dei propri problemi. Paradossalmente proprio questa attenzione ad evitare di essere contaminati dalle disgrazie altrui ha viceversa causato il contagio e le ripercussioni negative a cascata su tutti i Paesi dell'Unione, con rischi per l'intera economia globale.

All'origine delle difficoltà e degli squilibri dell'Eurozona infatti vi sono la crisi finanziaria e i suoi effetti, e non già il mancato controllo della finanza pubblica da parte di alcuni Paesi. Certo, la Grecia ha manipolato i suoi conti, ma in via generale la crescita dei disavanzi e dei debiti pubblici in Europa e nel mondo è stata l'effetto (ovvio) della caduta del reddito in seguito alla crisi, del fallimento delle banche e del tentativo di sostenere le economie. In Europa invece si è sostenuto e ha prevalso l'idea, del tutto singolare, che sono stati i disavanzi eccessivi e la ridotta virtù dei Paesi periferici a scatenare la crisi, sicché alle sofferenze prodotte dalla recessione vengono aggiunte quelle derivanti da politiche deflazionistiche.

In sostanza i governanti europei hanno confuso la causa (la crisi) con gli effetti (i disavanzi) e si illudono che intervenendo sui secondi si possano risolvere i problemi posti dalla prima. Ciò non significa che la nuova governance europea sia inutile, al contrario. Tuttavia essa va bene per la gestione corrente e non per la crisi che ha prodotto l'aumento del debito. La cosa fondamentale da fare sarebbe - come si è detto - gestire collettivamente e congiuntamente tra i Paesi l'extra debito che si è prodotto in Europa e la ricapitalizzazione delle banche, in modo da evitare dubbi e problemi circa la solvibilità dei singoli Paesi.

Se si vuole risolvere la crisi dell'euro, sono necessarie soluzioni cooperative molto poco costose, e in grado di rimborsare in futuro anche i costi addizionali che subirebbero inizialmente i Paesi più virtuosi. L'alternativa è la possibile (probabile) disintegrazione dell'Eurozona euro con danni gravissimi per tutti, Germania in testa. Che le cose stiano così è evidente; ed è sorprendente che sia così difficile rendere condivisa questa analisi.

In tale contesto la posizione dell'Italia è particolare: oltre al debito e al disavanzo, il nostro Paese soffre di una ormai cronica carenza di crescita e di produttività, per cui se anche la politica europea fosse quella corretta, per noi sarebbe comunque necessario operare politiche di rientro, sia pure in tempi più ragionevoli e in un contesto più favorevole. Nella situazione attuale, comunque, se non si vuole rimanere in balia dei mercati, il Governo non può che varare al più presto la manovra concordata in sede europea. E che Dio ci assista.

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