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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2011 alle ore 07:58.

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Come ampiamente previsto, Christine Lagarde sarà il nuovo Managing Director del Fondo monetario internazionale. L'Europa è riuscita a spuntarla ancora una volta, nonostante la critica unanime al sistema feudale di spartizione delle poltrone al vertice delle istituzioni di Bretton Woods e la legittima attesa di un passaggio di mano nella gestione della crisi debitoria dell'Eurozona. I Paesi emergenti non hanno saputo trarre vantaggio da questa situazione, e l'appello dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) contro il sistema di nomina "obsoleto" è rimasto senza seguito. Questi Paesi non hanno ancora né la coesione politica né i meccanismi istituzionali per scegliere e appoggiare un unico candidato, fatto sconsolatamente rilevato dall'unico rivale della Lagarde, il messicano Agustìn Carstens.

Eppure qualcosa si muove. Questo processo di selezione è stato più aperto, più conteso e più trasparente di quelli passati. Entrambi i candidati hanno intrapreso un'intensa campagna elettorale, diffondendo le proprie posizioni e la loro visione per il Fondo, in uno sforzo di persuasione politica a livello mondiale. Vari Paesi membri hanno fatto sapere in anticipo la loro orientazione: significativa, a questo riguardo, la divisione all'interno dei Paesi avanzati, con un Paese G-7 (Canada) e un importante Paese industriale (Australia) che hanno rotto i ranghi e appoggiato Carstens. Anche in altre sedi si è in questi giorni visto che i vecchi accordi a porte chiuse stanno mostrando le corde. Al vertice della Fao, il candidato dell'Europa e dei Paesi industriali, lo spagnolo Miguel Angel Moratinos, è stato sconfitto dal brasiliano José Graziano da Silva, con i voti congiunti di Paesi emergenti e poveri. E anche la resistenza opposta da Lorenzo Bini Smaghi alla richiesta di dimissioni dalla Bce avanzata insistentemente dal premier Silvio Berlusconi e dal presidente Nicolas Sarkozy, seppure poi rientrata (a termine), segnala che i politici non possono più disporre di queste questioni a loro volontà e piacere. Era in effetti ora.

Abbiamo già osservato da queste colonne che l'Europa non si meritava in questa occasione di dirigere ancora una volta l'Fmi, data l'incapacità mostrata nella gestione della crisi greca. Ma Christine Lagarde promette bene, per le sue varie doti, che ho avuto l'occasione di osservare di prima mano quale capo missione Fmi per la Francia nel corso di vari anni. Tra i (molti) ministri incontrati in quella veste, Christine Lagarde è stata quella più fedele allo spirito della "surveillance" del Fondo, quella che più teneva ai consigli e le discussioni nel quadro delle missioni annuali. Prima tra queste doti figura un marcato acume politico. I suoi inizi nel Governo della presidenza Sarkozy non furono facili: questa anglofila con lunga permanenza in Usa era una outsider, non parte della cerchia intima del Presidente, e per di più non un'economista - fatto sempre visto con sospetto dai funzionari del ministero di Bercy. Ma da questa partenza difficile, Christine Lagarde è riuscita a imporsi con decisione e a divenire un pilastro dell'attuale Governo, una voce influente e non facilmente sostituibile, e popolare anche tra i funzionari del suo ministero.

A questo, Lagarde aggiunge una capacità di unire diplomazia e tatto con coraggio e determinazione decisionale - qualità essenziali in un direttore del Fondo chiamato a trasmettere messaggi sgraditi ad autorità restie. Lagarde dimostra infine una notevole curiosità intellettuale e capacità di ascolto, colmando così anche l'assenza di una formazione prettamente economica. Mentre una forte competenza economica può senz'altro essere d'aiuto al direttore del Fondo, non è di per sé essenziale. Vi è già un capo economista eccezionalmente qualificato nella persona di Olivier Blanchard, e si pensi a questo anche nella scelta, ormai prossima, di un successore a John Lipsky, quale First Deputy Managing Director. Va infine ricordato che la nomina di Christine Lagarde vedrà non solo la prima donna a capo del Fondo, ma una donna che va ad aggiungersi a un'altra nel ristretto management team del Fondo (Minouche Shafik, nominata appena alcuni mesi fa come Deputy Managing Director), fatto anch'esso senza precedenti.

Tutto ciò dovrebbe quindi promettere bene per la gestione Lagarde. Ma a una condizione imprescindibile: che essa lasci definitivamente dietro di sé ogni retaggio delle posizioni assunte durante l'ultimo anno della crisi della zona euro - che tagli ogni cordone ombelicale, metta a lato ogni interesse nazionale, abbandoni i vari veti sollevati, e diventi appieno l'incarnazione indipendente dell'esperienza pluridecennale del Fondo nella gestione delle crisi e, soprattutto, nel dosaggio accurato dell'onere tra i cittadini del Paese indebitato, i creditori ufficiali e - non da ultimo - i creditori privati. Che eserciti piena autonomia di giudizio, radicata nelle regole e l'esperienza dell'Fmi. Che non sia, insomma, un politico europeo in esilio a Washington. La stessa Lagarde riconosce questa esigenza. Nella sua dichiarazione al direttorio del Fondo dedica quasi una pagina a respingere l'idea che vi sia qualsiasi conflitto d'interesse. «Se eletta - scrive - quando si tratta di fornire sostegno a un membro della zona euro, avrò una sola cosa in mente: garantire la piena coerenza con la missione del Fondo e la buona amministrazione delle risorse del Fondo. Nei miei colloqui con i leader europei, non mi tirerò indietro dalla franchezza e la tenacità necessarie - al contrario». Su questo solenne impegno verrà giudicata la gestione di Christine Lagarde, alla quale auguriamo buon lavoro.

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