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Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2011 alle ore 08:24.
L'ultima modifica è del 06 luglio 2011 alle ore 06:42.

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Coloro che attribuiscono la crisi del debito sovrano alla mancanza di iniziativa delle istituzioni e dei governi hanno certamente ragione, ma sarebbe sbagliato pensare che il problema può essere risolto con un qualche trucco finanziario: gli eurobond, l'acquisto di titoli sovrani da parte della Bce o una generale garanzia sui debiti (come proposto da Jeffrey Sacks sul Financial Times del 30 giugno scorso).

La crisi di debito dei Paesi periferici è in primo luogo dovuta a mancanza di competitività che si manifesta con squilibri crescenti nelle bilance commerciali.
Una semplice crisi di liquidità potrebbe giustificare l'assunzione di garanzie da parte delle istituzioni europee a copertura dei rischi connessi al debito dei Paesi periferici, perché queste politiche hanno il vantaggio di allentare il panico, abbassare i tassi d'interesse e guadagnare tempo in attesa della soluzione dei problemi reali, con perdite contenute per i creditori. Ma la crisi di Grecia, Portogallo, Spagna (e, in misura minore, dell'Italia) non è dovuta a una momentanea e mal riposta mancanza di fiducia degli investitori.

I dati parlano chiaro. Dalla creazione dell'Unione economica e monetaria, i Paesi periferici hanno perduto competitività nei confronti del resto dell'Eurozona in termini di tassi di cambio reali, a causa di un aumento eccessivo del costo dei servizi e del lavoro (in gran parte dovuto alla stagnazione della produttività). Nello stesso lasso di tempo, gli squilibri commerciali sono aumentati e i Paesi periferici hanno accumulato disavanzi crescenti nei confronti dei partner europei. L'accumulo di tali disavanzi è principalmente causato dal processo di integrazione monetaria e commerciale dell'Eurozona. Un recente lavoro dell'Fmi stima che il volume delle esportazioni dei Paesi europei nei confronti degli altri Paesi dell'Eurozona sono oggi molto più sensibili rispetto alle variazioni dei tassi di cambio reali di quanto non lo siano nei confronti dei Paesi extra-europei. In altre parole, non potremo neanche sperare che una (improbabile) svalutazione dell'euro possa far tornare Grecia, Portogallo, Spagna e, in minor misura, Italia sulla strada giusta.

La scommessa alla base dell'Uem è la determinazione di un equilibrio in cui un insieme di Paesi con culture, redditi e istituzioni diverse, possono crescere insieme senza ricorrere a trasferimenti unilaterali eccessivi nei confronti delle aree svantaggiate. Sappiamo, tuttavia, che i regimi di cambio fissi tendono a produrre maggiori squilibri commerciali. Dunque, una scommessa rischiosa che può avere successo a determinate condizioni.
Le caratteristiche del mercato interno di ogni Paese dell'Eurozona deve adattarsi alle condizioni economiche sovranazionali. Ciò significa una maggiore liberalizzazione nella circolazione di lavoro e capitale, politiche che favoriscano l'afflusso di investimenti diretti verso i Paesi periferici, liberalizzazioni per ridurre il peso dei settori protetti, una riqualificazione della spesa pubblica che favorisca la crescita del capitale umano e dell'innovazione, un sistema più efficiente di relazioni industriali e un alleggerimento della tassazione su lavoro e imprese.

A conferma di ciò, molti studi empirici concludono che, tra i Paesi che aderiscono a regimi di cambio fisso, quelli che hanno una maggiore capacità di contenere i disavanzi commerciali sono caratterizzati da mercati più flessibili, del lavoro e dei prodotti.
I commenti sulla manovra del Governo di questi giorni si sono concentrati molto sulla dimensione dei tagli e delle entrate. Ma se la manovra non affronta i problemi che sono alla base della mancanza di competitività del nostro Paese, l'obiettivo di portare il disavanzo primario in territorio negativo nei tempi previsti potrebbe non essere sufficiente. Non sarà certo un punto in più di Iva, una piccola rimodulazione delle aliquote Irpef o una tassa sul trading bancario a fare dell'Italia un Paese più competitivo.

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