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Questo articolo è stato pubblicato il 13 luglio 2011 alle ore 08:25.
L'ultima modifica è del 13 luglio 2011 alle ore 08:58.

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Quattro miliardi. Questi i risparmi stimati derivanti dall'innalzamento dell'età pensionabile delle donne del pubblico impiego destinati a confluire nel «Fondo strategico per il Paese a sostegno dell'economia reale», con l'intenzione scritta nero su bianco d'investire la somma in misure di welfare e conciliazione.

Questa la cifra di cui si riduce, gradualmente, ma complessivamente, il Fondo stesso, secondo gli ultimi documenti sulla manovra in corso. Insomma, i 4 miliardi risparmiati dalle donne più anziane che dovevano tornare alle donne più giovani sotto forma di aiuti alla conciliazione della vita lavorativa e familiare saranno in realtà destinati ad altro.

Il promettente patto intergenerazionale sta saltando. Eppure il patto era ben fondato. Lavoro e pensioni sono infatti strettamente legati: nei trattamenti pensionistici si riflettono le condizioni del mercato del lavoro. I tassi di sostituzione pensionistici delle donne, tipicamente inferiori a quelli degli uomini, perpetuano i divari di genere esistenti nel mondo del lavoro. I periodi d'inattività non sempre coperti da contributi previdenziali e le discontinuità che caratterizzano molte carriere femminili rendono la posizione pensionistica delle donne in media più sfavorevole di quella degli uomini in termini di generosità della pensione. È dal mercato del lavoro che occorre partire per eliminare i divari di genere nel pensionamento, ancora di più in un Paese che ha adottato un sistema pensionistico contributivo.

Come sono andate le cose? La vicenda è nota: una sentenza della Corte di giustizia europea richiedeva all'Italia di equiparare l'età di pensionamento di uomini e donne nella Pa, portando anche per le donne, gradualmente, l'età di pensionamento dai 60 anni previsti ai 65 anni degli uomini. La Corte Ue riteneva che l'uscita anticipata dal mondo del lavoro delle donne rispetto agli uomini discriminasse le donne. A seguito di questa sentenza si è sviluppato un acceso dibattito nel nostro Paese, che ha diviso i favorevoli all'aumento dell'età pensionabile delle donne, che condividevano l'argomentazione europea, e i contrari, convinti che fosse se non altro singolare cominciare dal sanare le differenze di genere nell'ultima fase, quella delle pensioni, e non dall'inizio dell'attività lavorativa. Su un punto tutti d'accordo: la parità nelle pensioni doveva essere almeno un'occasione per promuovere la parità nel lavoro con misure concrete.

Certo il momento è critico: un debito pubblico elevatissimo, le eredità di una profonda crisi economica, la disoccupazione giovanile a livelli preoccupanti possono far ritenere che la parità di genere e la promozione di misure di conciliazione siano questioni di secondo piano. Ma non dovrebbe essere così. Le misure a favore della conciliazione rappresentano un'opportunità di sviluppo del lavoro delle donne: un motore essenziale e prioritario per la crescita del Paese. In un Paese come il nostro dove il tasso di occupazione femminile è fermo al 46,1%, con il Sud bloccato al 30,5%, l'occupazione femminile rappresenta una risorsa non sfruttata, uno spreco di talenti. Ma come fare per aumentarla e utilizzare a pieno il lavoro delle donne come risorsa produttiva per il Paese? Le misure di conciliazione e condivisione sono una risposta.

L'Italia soffre di una profonda carenza di servizi alla prima infanzia, come gli asili nido, particolarmente accentuata nelle regioni del Sud, e di servizi alla cura degli anziani. L'Italia ha la spesa per trasferimenti alle famiglie più bassa d'Europa, pari a circa 1,36% del Pil, contro il 3% della Francia. Numerosi studi mostrano che, dove le misure per la conciliazione sono maggiori e la spesa di welfare a favore delle famiglie è più rilevante, l'occupazione femminile è maggiore. Senza considerare che anche la fecondità aumenta. Un altro risultato importante per il nostro Paese, dove il tasso di fecondità fermo a 1,41 figli per donna è un ulteriore freno alla crescita economica. Quattro miliardi da investire in questa direzione rappresentavano davvero un'occasione unica. Un'opportunità
(a quanto pare) mancata.

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