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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2011 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 17 luglio 2011 alle ore 20:07.

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Ma chi sono i mercati? E chi li governa?
La speculazione, pur necessaria come riconosceva lo stesso Max Weber, deve tuttavia essere disciplinata da regole precise ed efficaci per evitarne le devastazioni. Qui sta la differenza fra il pubblico, indirizzato al bene comune, e il privato, ispirato solo alla ricerca del profitto di pochi. È tempo allora che nelle democrazie occidentali si sostituisca la lotta per il diritto ad alcuni principi della scienza triste, poiché è proprio in questa incapacità di dettare le norme che la speculazione selvaggia diventa sovrana.

È vero infatti che i mercati sono governati dai privati e in questo momento soprattutto dalle società di rating, le quali, principali responsabili della crisi che ha gettato gli Stati Uniti nella peggiore recessione di tutti i tempi, con penosa ironia, come sottolinea il Wall Street Journal, minacciano ora di togliere la massima valutazione di "tripla A" da sempre riservata ai bond americani.

La «relazione incestuosa», come l'ha definita la Sec, fra le società di rating e le corporations di Wall Street è il vero crogiuolo e la sentina del conflitto di interessi che oggi domina i mercati finanziari. Il rating è il frutto spesso del pagamento di lauti compensi da parte dei valutati, tanto che Andrew Cuomo, l'Attorney general di New York, nel 2008 le incriminò per aver dato le massime valutazioni a rischiosissimi titoli derivati (Cdo e Cds), fattori determinanti dell'attuale depressione, nella quale ora le "banche ombra", le banche d'affari, gli hedge funds, continuano ad accumulare incredibili ricchezze.

Non è certo un caso che Moody's, con Standard&Poor's e Fitch, le tre maggiori società di rating, abbia come azionista di riferimento il fondo Berkshire Hathaway, posseduto dal noto finanziere e speculatore Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo. Le valutazioni dei rating possono essere assolutamente arbitrarie e capricciose perché opache. Non vi è infatti nessuna norma che ne garantisca la serietà e la validità dei criteri che ne stanno alla base. Né esiste alcuna autorità pubblica indipendente che controlli quelle società e vigili sui loro comportamenti.

Sono dunque solo le norme che possono rendere razionali i comportamenti e le pulsioni umane rendendole così prevedibili, mentre le sregolate scelte dei mercati, dettate esclusivamente dalla passione del guadagno monetario, non possono più essere un modello interpretativo di una vita collettiva, ispirata a quei principi di equità e di eguaglianza che le democrazie occidentali hanno ereditato dal secolo dei Lumi. Se gli Stati Uniti sembrano ora incapaci di una vera riforma che riguardi questo settore, dove il denaro influenza in modo determinante la politica, tale riforma potrebbe venire invece dall'Europa, dove pure "uno spettro s'aggira".

Quell'Europa che è stata anch'essa, col mercato unico e la moneta unica, ma senza un autentico governo europeo, più schiava dell'economia che del diritto. A sconfiggere lo spettro sarebbe necessario, a parer mio, costituire all'interno della Ue un'Autorità europea di rating, insomma un'agenzia pubblica europea che garantisca la serietà e la continuità delle valutazioni, togliendo il monopolio e l'ordalia e il giudizio dei mercati alle private corporations di rating americane. Soprattutto ad evitare che la speculazione, nella forma più abbietta del conflitto di interessi, già considerato la molla propulsiva del capitalismo monetario, finisca poi per sopprimerlo definitivamente.

Tale Autorità dovrebbe essere dotata di ampi poteri anche sanzionatori, al fine di garantire la valutazione dei mercati e degli Stati, finalmente sottratti al terrore di rating privati, interessati e speculativi. Authority che sarebbe perfettamente in linea con le norme e i principi contenuti in tutti i Trattati Ue. Questa riforma faciliterebbe tra l'altro anche l'emissione di eurobond, come suggerisce uno dei "nove impegni" del Manifesto del Sole 24 Ore, pensando finalmente allo sviluppo, all'aumento della domanda aggregata, alla riduzione della disoccupazione e a quella contestuale del debito pubblico.

Si potrebbe allora ripristinare con chiarezza la fondamentale distinzione per la sopravvivenza delle democrazie e dell'Europa fra ciò che deve essere pubblico e ciò che deve essere privato, fra il diritto e l'economia.

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