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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2011 alle ore 06:41.

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La settimana che si è chiusa e quella che si è aperta portano i segni dell'eccezionalità. Ancora una volta il Presidente della Repubblica aveva richiamato le forze politiche a superare gli interessi di parte in nome dell'interesse nazionale; e, per una volta, è stato ascoltato. La manovra è stata approvata senza alcun fuoco di sbarramento da parte dell'opposizione.
L'atteggiamento responsabile del Pd, dell'Idv e dei centristi era stato subito salutato con soddisfazione dal Presidente Giorgio Napoletano. Non altrettanto ha fatto il Governo. Silvio Berlusconi, nell'unica comunicazione pubblica di tutta la settimana fino al dibattito alla Camera di venerdi pomeriggio, si è premurato piuttosto di esaltare la saldezza della propria maggioranza.
Solo il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e il Presidente del Senato Renato Schifani hanno avuto parole di apprezzamento per la disponibilità manifestata dall'opposizione.
Il Pd - nel corso della settimana passata - ha quindi rinunciato a una facile polemica sui tagli e sugli aggravi fiscali in nome dell'emergenza. Ma oltre al plauso del Capo dello Stato e di alcuni esponenti della maggioranza, cosa ne ricava? Qual è il suo benefit in termini politici?
Certamente - e i risultati li abbiamo visti in questi primi due giorni della settimana - ha acquistato merito presso alcuni settori dell'opinione pubblica e della classe dirigente che continuavano a dipingerlo affetto del radicalismo vendoliano, dimenticando l'approccio riformista di lunga data del leader del partito, Pierluigi Bersani. Ma questi segnali di stima hanno valore solo se si tramutano in sostegno politico alle scelte del partito. Perché come ricordava un grande politologo, Stein Rokkan, «i voti contano, ma le risorse decidono».
Le risorse oggi a disposizione del Pd sono soprattutto simboliche e si condensano nella maggiore "considerazione" da parte di componenti sociali che prima ne diffidavano. Ancor prima dell'atteggiamento responsabile di questi giorni in Parlamento, e in generale nel dibattito nel Paese, hanno pesato la conduzione e l'esito della campagna elettorale per Giuliano Pisapia a Milano. Il Pd ha saputo fare squadra, mettersi a disposizione del vincente delle primarie, e contribuire a un programma neo-riformista per la città. Con quella vittoria, che lo ha portato a pochissimi voti dal Pdl (171.585 contro 170.994), ha cancellato d'un colpo la litania della sua incapacità di parlare ai ceti produttivi. A questo si aggiunga la tradizionale virtuosità amministrativa (in senso relativo, naturalmente) delle regioni "rosse".
Il partito di Bersani, grazie a un'accresciuta credibilità, ha ora acquisito sufficienti risorse simboliche per chiedere a pieno titolo un cambiamento di governo. Questa richiesta è "facilitata" dal comportamento al limite dell'autolesionistico del presidente del Consiglio. Mentre in questi giorni, benché impegnato in una serie di visite in Medio Oriente, Bersani non faceva mancare la sua voce sulle vicende interne, Berlusconi si era eclissato. Con un tale comportamento ha dato l'impressione di non essere interessato alle sorti del Paese. Di avere altre preoccupazioni per la testa. E la sua virtuale assenza in una situazione di tale gravità ha minato la vita dell'esecutivo.
La prima reazione a questo nuovo scenario è venuta dall'astensione della Lega sulla richiesta di arresto per il senatore Alfonso Papa. Per la prima volta il Carroccio non ha sostenuto un indagato del Pdl. Si tratta di un segnale inequivoco di una presa di distanza dell'alleato, al quale va aggiunta la frase di Umberto Bossi, sibillina ma non troppo, della necessità/disponibilità della Lega per un nuovo Governo "tecnico".
La rinnovata e rinvigorita assertività politica del Pd e lo smarcamento della Lega, uniti all'(auto)isolamento del Cavaliere, annunciano un tempesta perfetta per il Governo.
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