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Questo articolo è stato pubblicato il 25 luglio 2011 alle ore 07:53.
L'ultima modifica è del 25 luglio 2011 alle ore 06:38.

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A distanza di un secolo e mezzo da quando l'elettricità e il petrolio cominciarono a scalfire la preminenza del carbone (che nel 1914 forniva ancora, da solo, l'87% dell'energia su scala mondiale), questo combustibile fossile appare destinato ora a riguadagnare terreno.

Si prevede infatti che, con la riduzione dal 14 al 10% della quota globale di energia nucleare, dovuta ai tagli in corso, almeno un terzo della domanda da ricollocare verrà convogliata verso il mercato del carbone. E ciò anche in Europa.
Nel Vecchio Continente si tornerebbe così a riportare in auge quella che a metà dell'Ottocento il Times definiva una «moderna pietra filosofale», alla luce del ruolo decisivo svolto dal carbone nell'innesco della Rivoluzione industriale, e che Friedrick Siemens, a sua volta, considerava «la misura di tutte le cose». Era stato infatti il carbone a imprimere un ritmo più veloce ai progressi dell'economia e a determinare, nello stesso tempo, mutamenti significativi nello scenario sociale: dopo che aveva alimentato, grazie alla trasformazione dell'acqua in vapore, gli altiforni per la fabbricazione dell'acciaio e meccanizzato gli opifici tessili; inaugurato l'età della ferrovia (con le prime locomotive, al posto delle vecchie diligenze) e del trasporto marittimo su navi di grossa stazza (in sostituzione delle imbarcazioni a vela); e segnato una netta separazione fra i paesi del "cavallo vapore", sospinti in avanti dall'industrializzazione e da una crescente mobilitazione di capitali, e quelli rimasti indietro, del "cavallo da tiro", ancorati a un'agricoltura per lo più di sussistenza e al presidio delle rendite fondiarie.

Tuttavia, la marcia trionfale della Gran Bretagna, e man mano del Belgio, della Francia, della Germania e degli Stati Uniti aveva comportato, oltre alle spossanti fatiche di una massa di minatori adibiti a scavare col piccone giacimenti minerari sempre più profondi, il degrado di intere contrade in altrettante "regioni nere", con il paesaggio delle campagne deturpato dai pozzi d'estrazione del carbone e il cielo delle nuove città-fabbriche offuscato perennemente dal fumo delle ciminiere. L'assoggettamento della manodopera a un lavoro massacrante nel sottosuolo (con una sequela di incidenti mortali) e l'abbruttimento della natura circostante si sarebbero ripetuti, durante la rincorsa dei second comers ai paesi più avanzati, via via che la frontiera del carbone andò spostandosi dal cuore dell'Europa occidentale verso Est, all'Ucraina, agli Urali, all'Asia centrale, e, di qui, infine, alla Cina e all'India.

Dopo che la Comunità europea era sorta nel 1957 sulle orme di quella del carbone e dell'acciaio istituita sei anni prima (che aveva per epicentro il vecchio bacino minerario-metallurgico della Ruhr), questa impronta originaria della sua economia s'era venuta progressivamente sbiadendo, anche ai tempi dell'emergenza energetica successivi all'impennata dei prezzi petroliferi nel 1973 e 1979. E l'anno scorso la Ue aveva persino deciso di mettere al bando il carbone entro breve scadenza, per ridurre le emissioni ad effetto "serra".
Senonché, dopo lo stop deciso in vari paesi allo sviluppo del nucleare, e in considerazione dei massicci investimenti richiesti dalle energie rinnovabili, si sta pensando di utilizzare una risorsa disponibile da subito, come il carbone, in misura più ampia di quanto già si faccia, dato che esso copre adesso oltre un quarto del consumo energetico della Ue per via del largo uso da parte della Germania e di due paesi emergenti come la Polonia e la Repubblica Ceca.

Ma un ritorno al carbone, sia pur in misura più limitata rispetto a quella d'un tempo, e pur con determinate tecnologie che ne rendono l'impiego più "pulito", significherebbe, in pratica, ripudiare l'impegno assunto da Bruxelles, e più volte ribadito, per l'attuazione nel suo ambito di un processo di sviluppo «responsabile e sostenibile». D'altra parte, si aggraverebbe ulteriormente l'inquinamento del clima e dell'ambiente dovuto all'utilizzo intenso e sistematico che del carbone continuano a fare Cina e India, ma anche gli Stati Uniti. E ciò, nonostante le reiterate e argomentate denunce espresse in varie sedi internazionali affinché si provveda per tempo ad attuare un'efficace politica per la salvaguardia dell'ecosistema.

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