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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2011 alle ore 08:22.
L'ultima modifica è del 28 luglio 2011 alle ore 06:40.

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I problemi del Paese si capiscono anche dai suoi maggiori scandali che spesso sono la deformazione, illegale, di quanto è già un problema economico e sociale, da risolvere comunque nell'interesse del Paese.

A ben guardare, che cosa accomuna i recenti scandali relativi a personaggi che fanno mercimonio di incarichi, gare ed appalti pubblici; o ancora che si occupano di varianti urbanistiche relative ad aree industriali dismesse? In ambedue i casi, il sociologo pensa anzitutto al ruolo della "casta", cioè del politico disonesto che fa i suoi affari.
Ma per l'economista, ciò che conta è qualcosa di ancora più grave. È l'ennesima conferma che la nostra mancata crescita è spiegabile – come avrebbero detto Ricardo e Marx – in termini di teoria del valore e della distribuzione: le rendite si mangiano ciò che in un moderno paese industriale dovrebbe spettare alla somma di profitti e salari.

Ma andiamo con ordine, e ricordiamo anzitutto come viene di solito spiegata la nostra mancata crescita degli ultimi quindici anni. Quando il 5 novembre scorso, Mario Draghi venne in Ancona a tenere la lezione Fuà su "Crescita, benessere e compiti dell'economia politica", ricordò – citando gli studi di Carlo M. Cipolla – che la decadenza dell'Italia nel Seicento fu «dovuta al dominio di una casta di possenti proprietari agrari che avevano ricacciato in secondo piano gli operatori mercantili, manifatturieri e finanziari».

A questi – cioè all'investimento in innovazione dei loro profitti – era attribuibile la grande crescita economica e sociale del Rinascimento. Che verrà poi spenta dal prevalere delle rendite, nel corso del Seicento. Chi sono oggi i "possenti proprietari agrari" di quattro secoli fa? Ovviamente, non dobbiamo pensare agli agricoltori, ma piuttosto all'intreccio tra rendite di vari tipi e "interessi corporativi" (come li chiama Draghi al termine delle ultime Considerazioni Finali) cioè al mancato prevalere delle regole di un'economia di mercato basata su concorrenza e merito.
Come è noto, la crisi di cui stiamo ancora soffrendo, ha avuto origine, nei Paesi anglosassoni, negli eccessi di una bolla immobiliare agevolata dalla speculazione finanziaria. Da noi, è stata minore la bolla e quindi il boom and bust dell'attività edilizia, ma in compenso è stata relativamente maggiore la speculazione immobiliare, anch'essa molto aiutata dal credito.

L'accondiscendenza – non sempre rispettosa della legalità – dell'ente locale che ha la sovranità urbanistica era parte di questo gioco. Con tutta la miopia politica di credere che varianti urbanistiche a volte illegali, e piani regolatori spesso sovradimensionati, aiutassero a finanziare i servizi sociali e quindi a meritare l'applauso degli elettori. O peggio, che la speculazione immobiliare potesse confondersi con la crescita, come temporaneo sostegno all'attività edilizia.
Un po' diverso è tornare alla crescita, spiegava anni fa un economista come Kaldor, che esplicitamente si richiamava alla teoria classica (Ricardo-Marx) della rendita.

Se perforiamo il "velo" della moneta e della finanza, la crisi la spieghiamo meglio in termini reali, cioè in termini di teoria classica del valore: una parte va alla rendita (e relativa spesa in consumi opulenti); un minimo va ai salari (e relativa spesa per beni di sussistenza), e quanto resta va ai profitti (e relativa spesa per investimenti e innovazione). Risulta così più chiaro che si torna a crescere solo se e quando si riducono le tante rendite che ci opprimono e ci impoveriscono. E per quanto riguarda l'urbanistica, vale l'auspicio di Draghi (è il punto delle ultime Considerazioni finali che è stato meno citato!) di «un serrato controllo di legalità» sugli enti locali.

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