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Questo articolo è stato pubblicato il 04 agosto 2011 alle ore 07:52.
L'ultima modifica è del 04 agosto 2011 alle ore 08:32.

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Nel suo intervento di ieri alla Camera il presidente Berlusconi aveva di fronte a sé due platee: quella fisica dei parlamentari che lo ascoltavano dal vivo e quella virtuale degli operatori finanziari mondiali. La seconda era quella che contava: le sue inquietudini e le pesantissime conseguenze che esse stanno determinando sui conti pubblici italiani e sulle nostre istituzioni finanziarie erano il vero motivo del suo intervento in aula, che altrimenti non avrebbe avuto luogo.

Era necessario rassicurare i mercati, che a modo loro, cioè vendendo, avevano dimostrato di non ritenere sufficienti le misure contenute nella prima parte della manovra, quella dedicata al rigore nella finanza pubblica.

Un consenso molto esteso tra analisti, studiosi e commentatori ha individuato la causa dell'atteggiamento negativo dei mercati nella mancanza di crescita dell'economia italiana, che rende problematica la possibilità di rimborso del debito pubblico, e indicato come rimedio necessario un completamento della manovra con un provvedimento dedicato alla crescita: un provvedimento dai contenuti più reali che finanziari, poiché è opinione prevalente che la crescita italiana sia frenata soprattutto da una serie di ostacoli. Ma il Presidente ha scelto, almeno apparentemente, di parlare alla platea fisica e quindi ha scelto il linguaggio tipico della politica, che consiste quasi sempre nel ribadire la correttezza delle proprie posizioni e l'appropriatezza delle scelte passate, e nello spiegare ai dissenzienti perché sbagliano.

Coerentemente con questa scelta, forse considerata dovuta in funzione della sede, Berlusconi ha elencato con efficacia i noti punti di forza dell'economia italiana, tra i quali la ricchezza delle famiglie, il loro indebitamento contenuto, la solidità delle banche, l'approvazione della manovra sulla finanza pubblica da parte dell'Europa, la capacità esportativa delle imprese. A questi fattori, non nuovi ma comunque rilevanti, ha aggiunto da un lato la conferma del pareggio di bilancio per il 2014, dall'altro l'annuncio che il fabbisogno finanziario sarà azzerato per l'ultima parte del 2011: un elemento, quest'ultimo, di non irrilevante effetto sulla situazione dei mercati finanziari.

Dei quali il Presidente ha criticato il nervosismo, affermando che non è il caso di rincorrerlo, dal momento che riguarda persino gli Stati Uniti. Insomma, sebbene abbia ricordato ai colleghi parlamentari di essere un imprenditore che ogni giorno segue l'andamento di tre imprese quotate, non ha fatto quello che di solito fa un capo azienda quando si presenta a un mercato diffidente: illustrare i provvedimenti concreti con i quali intende riportare la gestione nella direzione che gli investitori ritengono necessaria per mettere a disposizione i propri capitali. Con l'eccezione della decisione Cipe da oltre 7 miliardi per investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, una spinta alla crescita ma non derivante dalla soppressione di quegli ostacoli che da tempo la frenano.

Se tuttavia si considera la parte del discorso dedicata alla collaborazione con le parti sociali, aperta al contributo dell'opposizione, si trovano importanti aperture, dedicate ad altrettanti capitoli. Tra i più importanti, il riconoscimento del ruolo che deve essere lasciato all'investimento privato ovunque esso sia possibile, accompagnato dal controllo degli investimenti effettivamente da essi compiuti. Una maggiore attenzione ai problemi di liquidità delle imprese, e a quelli delle banche, anche in connessione ai pagamenti della Pubblica Amministrazione. E il riconoscimento della centralità del problema della produttività, che va garantita, insieme con il livello di utilizzo degli impianti.

È di grande significato che il tema della produttività sia stato tra quelli cui ha dato maggiore evidenza nel suo intervento anche Pierluigi Bersani, leader dell'opposizione. Sembra sia finalmente giunto il momento in cui si riconosce, ai massimi livelli della politica, sotto la spinta delle parti sociali, che il problema della produttività non solo è centrale per la crescita, ma ha bisogno di un nuovo quadro delle relazioni industriali. Il quadro che abbiamo ereditato dal passato è iniquo e inidoneo alla nuova divisione internazionale del lavoro.

I lavoratori sono divisi in due campi: i precari, che assicurano alle imprese il massimo della flessibilità, e i protetti, che non assicurano un adeguato utilizzo degli impianti. Purtroppo i precari, in prevalenza giovani, occupano molto spesso posizioni a bassa qualificazione, come è logico per contratti non idonei a investire nella formazione di competenze. Mentre i protetti si trovano in prevalenza in imprese fortemente strutturate, proprio quelle che sono più danneggiate dal mancato utilizzo degli impianti. Non c'è da stupirsi se, come lamenta Bersani, l'Italia sta perdendo interi segmenti della divisione internazionale del lavoro che sarebbero invece alla sua portata: perché non si investe abbastanza sui posti di lavoro "flessibili", e perché i grandi impianti non vengono in Italia, o se ne vanno. Imprese e sindacati hanno capito che questa suddivisione iniqua e controproducente del mondo del lavoro va superata.

Se la politica si metterà alacremente al lavoro per dare corpo, insieme alle parti sociali, a un nuovo Statuto del Lavoro, questo potrà rappresentare uno degli assi portanti della politica per la crescita. Che deve consistere non tanto di erogazioni, quanto di una ridefinizione dei diritti, implicita nei 9 impegni per la crescita che questo giornale ha proposto. Ma il tempo stringe: bisogna che quegli impegni si traducano prestissimo in leggi e decreti.

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