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Questo articolo è stato pubblicato il 06 agosto 2011 alle ore 08:50.
In un editoriale sull'edizione online del New York Times, Simon Johnson, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, si è interrogato su chi se la passa peggio: l'America o l'Europa?
«Sul breve periodo gli europei hanno il problema più serio e il rallentamento della crescita negli Stati Uniti (che rappresentano un quarto circa dell'economia mondiale), non farà che aggravarlo», ha scritto Johnson il 28 luglio. «Sul lungo periodo bisognerà vedere quando e come i politici americani riusciranno ad affrontare i veri problemi di bilancio».
Concordo sostanzialmente con la sua valutazione: l'Europa in termini puramente economici ha problemi più seri, perché ha adottato una moneta unica senza le istituzioni necessarie per farla funzionare. Gli Stati Uniti hanno problemi di bilancio da molto tempo, ma il pasticcio in cui si trovano in questo momento è eminentemente politico. Il che purtroppo non lo rende più facile da risolvere.
La cosa straordinaria, però, è la paralisi che sembra aver colpito praticamente tutti i Paesi avanzati. L'America è stretta nel cappio di una destra folle, l'Europa è stretta nel cappio della sua moneta unica che non si può né abbandonare né affiancare con riforme sufficienti a farla funzionare e il Giappone è stretto nel cappio di un trend demografico negativo e di una pavidità monetaria ormai profondamente radicata nelle aspettative. La tecnologia continua a progredire, le carenze di risorse naturali non sono tanto gravi da costituire un vincolo serio, i cambiamenti climatici fanno paura sul lungo termine, ma per il momento hanno prodotto danni limitati.
L'unico grosso problema che abbiamo in questo momento è quello che in teoria sarebbe facile da risolvere: una semplice inadeguatezza della domanda. E ci stiamo dimostrando totalmente incapaci di fornire una risposta. Sul lungo periodo, Keynes si starà rivoltando nella tomba.
Per qualche ragione, quello che sta succedendo ai titoli di Stato europei non trova grande spazio sulla stampa americana, e invece dovrebbe: nonostante i Repubblicani abbiano fatto e stiano facendo del loro meglio per distruggere la credibilità del debito Usa, è sull'altra sponda dell'Atlantico che sta saltando il banco.
Lo spread sui tassi di interesse fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi ormai è più alto che prima dell'annuncio del grande piano di salvataggio europeo. Dal momento che lo scopo di quel pacchetto era innanzitutto calmare i mercati prima che l'Italia e la Spagna affondassero in una spirale debitoria, si può dire che siamo di fronte a una pessima notizia.
Contemporaneamente, stanno calando sensibilmente i tassi di interesse sui titoli di Stato tedeschi. Questo non significa che ci sia una maggiore fiducia nella solvibilità tedesca: anzi, da questo punto di vista gli investitori sono meno fiduciosi, perché i costi potenziali di un salvataggio della periferia cominciano a ripercuotersi sulle valutazioni del debito dei Paesi del nocciolo duro di Eurolandia.
Il motivo del calo dei tassi sui bund è un altro, e cioè la crescente sensazione che la ripresa in Europa arranca, e che la Banca centrale europea alla fine revocherà o addirittura invertirà i previsti rialzi dei tassi, che rimarranno bassi a lungo.
Insomma, apparentemente i mercati si aspettano la catastrofe nella periferia dell'euro e la giapponesizzazione del nocciolo duro. E a mio parere non si sbagliano.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© 2011 NEW YORK TIMES GLI ECONOMISTI: Paul Krugman
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