Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 07 agosto 2011 alle ore 07:29.
L'ultima modifica è del 07 agosto 2011 alle ore 14:18.

My24

Inizia con il contributo di Carlo Carboni la serie di riflessioni che ci accompagnerà in agosto. Agli editorialisti e alle firme de Il Sole 24 Ore, in questo momento così delicato per il Paese, abbiamo chiesto di raccontare quando si sono sentiti orgogliosi di essere italiani.

Non ricordo la data esatta di quel giorno, di quella prima volta in cui mi sentii orgoglioso di essere italiano. Era sicuramente il 1958. In quell'anno, di lì a poco, avrei iniziato la prima elementare. Avevo sei anni. Le strade, anche se da poco, erano asfaltate e sempre meno percorse da carri trainati da cavalli o da buoi, sempre più da biciclette, motocicli e veicoli. A casa dei nonni, da qualche tempo, c'erano televisione e frigorifero. Doveva essere un sabato di luglio.

Un sabato perché mio padre, quando tornava da "fuori" - non tutte le settimane - veniva il pomeriggio per trascorrere la domenica con noi. Poi, al mattino del lunedì, al mio risveglio, già non circolava più nella grande casa dei nonni. Era in viaggio, per lavoro. Luglio perché, risalendo dal fiume alla dolce collina, verso il paese, correvo con la canottiera e i pantaloncini corti su prati a me già ben noti d'erba ingiallita e campi di grano tagliato da poco, fin troppo pungente sulle caviglie.

Correvo perché, a quell'ora calda, i miei genitori avrebbero dovuto già essere di ritorno a casa. Una lunghissima corsa soprattutto per volare in braccio al babbo che non vedevo da tempo. La mamma tornava più spesso e si divideva tra noi, che vivevamo con i nonni, e lui, fuori per lavoro. Lavoro per noi era parola sacra, un'attività indispensabile che sovra ordinava la vita delle singole persone e anche delle famiglie. Per questo mi legava al babbo un affetto giustificatorio fino all'intransigenza. Lui dava una colorazione adeguata alla vita familiare, il senso di marcia.

Quel giorno - la sera - gli chiesi perché quasi tutti i bambini del paese vivevano con i loro padri e io no: non si poteva lavorare meno e più vicino? Lui mi spiegò che lavorava per le Ferrovie dello Stato, che per noi italiani era cruciale ripristinare e ammodernare. E poi, mentre io immaginavo e mio padre sforzava il mio occhio lontano, aggiunse che si lavorava non solo per vivere, ma anche per creare un miglior futuro per tutti noi, rispetto alle tristezze del passato. Erano già tempi di grande ripresa del Paese che in "Alta-Italia" stava imboccando la via del boom industriale. Il mood sociale stava cambiando. Per noi bambini, c'era il vantaggio della semplicità delle cose e si avvertiva nell'aria una serenità mancata al Paese distrutto del dopoguerra. Questa serenità, un decennio prima, era mancata ai miei nonni che avevano perso casa e attività commerciale sotto un bombardamento impreciso americano della vicina raffineria.

Il vento stava cambiando: semplicità e serenità mi furono confermate dal lungo discorso che mio padre mi fece, quel giorno. Fu un giorno importante: iniziai a capire varie cose. Naturalmente, da bambino capivo per grandi intuizioni, creando anche scenari immaginari, che nell'infanzia non difettano. Anche se le sue parole che erano a volte troppo "acuminate" per la mia comprensione, capii che la nostra rotta familiare coincideva con quella dell'Italia.

L'Italia, il nostro grande Paese, era stata distrutta dalla guerra, soprattutto nei luoghi di lavoro di mio padre. Già perché il babbo, come lui diceva, progettava, disegnava e controllava la ricostruzione dei ponti ferroviari bombardati dai tedeschi e dagli alleati. Per questo motivo, né tedeschi né alleati godevano di grande considerazione tra la gente del luogo. A lungo c'era stato un braccio di ferro tra le due parti in tutto il Pesarese, ma, da noi, soprattutto, per la presenza di un'importante raffineria. Invece, mio padre, in paese, era soprannominato "l'americano". In effetti, fu a lungo prigioniero in Africa degli americani, ma era socialista, poi seppi. Tuttavia, ammirava gli americani, come molti italiani che, prima in vespa, ora giravano in auto e stavano costruendo il benessere moderno. Si era già diffuso il mito americano di una società affluente e vincente.

Mio padre mi spiegò nel suo discorso che lavorava anche perché tutti dovevano contribuire a un'Italia migliore e che con i sacrifici, anche quelli affettivi familiari, ci stavano riuscendo. D'altra parte io stesso avevo visto i suoi ponti ricostruiti. Lui, romano, aveva conosciuto mia madre, marchigiana, grazie alla sua lunga permanenza lavorativa in paese, prima di essere di nuovo dirottato verso l'Abruzzo e, poi, la Toscana. Alla fine la geometria del buon senso ne sarebbe uscita vittoriosa. Mio padre, quel giorno, aggiunse, che i sacrifici stavano ripagando le aspettative: entro due mesi, la famiglia si sarebbe trasferita a Roma, la sua città: per sempre, tutti assieme, ogni giorno, e, là, avrei iniziato la scuola.

Da quel colloquio con mio padre, capii che era in movimento un ostinato eroismo silenzioso e quotidiano di tutti gli italiani che erano non solo tornati a sopravvivere, ma sognavano qualcosa in più e di meglio per tutti: un messaggio difficile da assimilare oggi, poiché svicoliamo di fronte alle aspettative e alle angosce collettive, per cucinarci nel brodo opaco di quelle individuali. Mio padre apparteneva a quella generazione di giovani adulti consapevoli che la vita è un'esperienza impervia, ma con ampie opportunità: aveva aspettative ambiziose, ma tarate sulla consapevolezza dei sacrifici necessari per soddisfarle.

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi