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Questo articolo è stato pubblicato il 08 agosto 2011 alle ore 08:25.
L'ultima modifica è del 08 agosto 2011 alle ore 06:39.

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È ormai chiaro che gli Stati Uniti siano i principali responsabili dalla mancata chiusura delle decennali negoziazioni commerciali multilaterali, note con il nome di "Doha round", che sarebbero dovute giungere a compimento quest'anno.

Gli Stati Uniti hanno persino respinto il tentativo disperato del direttore generale dell'Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization - Wto), Pascal Lamy, di far accettare agli stati membri un accordo evirato - descritto dalle critiche come il "Doha magro e decaffeinato" - che è praticamente ridotto a qualche concessione ai paesi meno sviluppati.

Sebbene si debba riconoscere il ruolo negativo giocato da alcuni attori secondari, l'ambasciatore americano presso il Wto, Michael Punke, ha assunto il ruolo di "Mr. No" del commercio globale. Ma il problema non è Punke. Il rifiuto americano arriva dal l'alto del governo degli Stati Uniti, a cominciare dalla mancanza di leadership del presidente Barack Obama.

Sin dall'inizio della sua presidenza, Obama non ha difeso adeguatamente il libero scambio. Ha detto ripetutamente che le esportazioni sono buone per gli Stati Uniti: creano occupazione. Ma poiché le esportazioni americane non sono altro che le importazioni di qualche altra nazione, il ragionamento di Obama equivale a dire ad altri di perdere il lavoro. Dovrebbe invece ricordare agli americani che le importazioni sono anch'esse qualcosa di positivo: può sicuramente chiedere al suo pubblico di pensare ai posti di lavoro nei cargo Ups, nei treni e nei camion merci che trasportano le importazioni all'interno del territorio americano.

Il problema principale, comunque, è che Obama è stato incapace di affrontare e di mettere a tacere l'ostilità, dovuta alla paura, nei confronti del commercio da parte dei sindacati americani. Né ha voluto confrontarsi con le lobbies d'affari che vogliono tenere il Doha round in ostaggio per ottenere sempre più concessioni dagli altri paesi, anche se sanno che le trattative commerciali stanno per essere risucchiate nel triangolo delle Bermuda delle elezioni presidenziali americane del 2012.

Tuttavia ci sono pochi elementi nell'opposizione di sindacati timorosi e di avidi gruppi di pressione che non possono essere sconfitti con argomenti convincenti.

Oltretutto, come il rispettato analista di sondaggi Kalyn Bowman ha dimostrato recentemente, l'opinione pubblica americana non è per niente fortemente contraria al commercio. Ciò dipende dal fatto che, praticamente in ogni stato, oggi ci sono innumerevoli posti di lavoro – e non solo presso Ups – che dipendono dal commercio. Il protezionismo potrebbe essere nei fatti un dinosauro elettorale.

In ogni caso, storicamente i grandi statisti si sono sempre distinti andando ben oltre i pronostici elettorali grazie a questioni di principio. Se Obama effettivamente scrivesse meno e leggesse di più, troverebbe almeno due esempi storici di una leadership coraggiosa nell'affrontare problematiche commerciali che andrebbero ammirati ed emulati.

Uno di questi è l'abrogazione delle "Corn laws" inglesi da parte del primo ministro Robert Peel nel 1848. Nel voto cruciale per l'abrogazione che mise fine alla sua carriera politica, Peel ottenne solo 106 voti dal suo partito conservatore, mentre 222 parlamentari Tory gli si opposero. Ne uscì vittorioso, ma perse il sostegno del suo partito. Come Lord Ashley annotò nel suo diario: «guidò i Tories e seguì i Whigs».

L'altro esempio è Winston Churchill, che fu eletto come membro conservatore del parlamento da Oldham, città industriale del Nord. Dopo essersi convertito al libero scambio nel 1904, dovette lasciare il suo partito. Si unì, quindi, al partito liberale accettando l'invito dell'Associazione liberale di Manchester Nord-Ovest.

Churchill era anche per la libera immigrazione, e si oppose fermamente all'Aliens Bill del 1904 (in parte perché aveva intuito tracce di anti-semitismo nella paura, suscitata dall'afflusso di immigrati ebrei provenienti dall'Europa dell'Est, di un'invasione aliena). Churchill era un politico di principio che, come Peel, andò contro il suo stesso partito e, al contrario di Peel, sopravvisse per poi raggiungere un trionfo politico ancora maggiore, nell'epica lotta contro i nazisti.

Questi "profili coraggiosi", per citare la famosa frase di John F. Kennedy, dovrebbero ispirare Obama in un momento in cui Washington ha decisamente bisogno di una forte guida presidenziale sulle problematiche economiche più critiche. Obama ha basato la sua campagna elettorale sullo slogan «Yes, we can» («Sì, noi possiamo»), non su «Yes, we can, but we won't» («Sì possiamo ma non lo faremo»). Nell'osservare l'economia americana assalita dall'ignoranza in materia economica, ho un nuovo miglior slogan per lui: «Nec aspera terrent» o «Che le difficoltà siano dannate».

Copyright: Project Syndicate, 2011.
Tradotto dall'inglese da Roberta Ziparo

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