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Questo articolo è stato pubblicato il 09 agosto 2011 alle ore 08:02.
L'ultima modifica è del 09 agosto 2011 alle ore 06:38.

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È tipico di ogni dittatore ignorare i moniti di chi critica la sua condotta. Non solo quando provengono da Paesi lontani, in questo caso quelli occidentali. Ma anche da quelli vicini, con cui condivide interessi economici e religiosi. Dopo cinque mesi di rivolta e 2mila vittime civili, Arabia Saudita, Kuwait e Bahrein hanno richiamato in patria i loro ambasciatori a Damasco (il Qatar lo ha fatto in luglio) chiedendo la fine della sanguinosa repressione in Siria.

Il fatto che l'Arabia sia scesa in campo rappresenta tuttavia una svolta. Custode dei luoghi più sacri dell'Islam, Riad è la "Banca centrale" del petrolio. In una regione dove i capi di Stato sono riluttanti a criticarsi, il fatto che si sia esposto Re Abdallah in persona rafforza la condanna e suggerisce che Riad ritenga ora più pericoloso che il presidente Assad resti al potere, invece del contrario. Assad non sembra intenzionato a fermarsi. Ma più inasprisce la repressione, più la rivolta si estende a macchia d'olio.

L'impressione è che si sia giunti a un punto di non ritorno. L'Occidente è riluttante a un intervento armato. L'opposizione siriana sa che non può tornare indietro. Spera che parte dell'esercito passi dalla sua parte. Anche questo scenario non è incoraggiante. Il rischio è un'altra guerra civile.

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