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Questo articolo è stato pubblicato il 09 agosto 2011 alle ore 08:42.

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La crisi del debito sovrano in Europa sta forzando profondi cambiamenti dell'unione monetaria, anche se è ancora troppo presto per valutare se saranno decisivi nell'uscita dalla crisi e nella sopravvivenza stessa dell'euro.
I più importanti riguardano da un lato le politiche economiche dei Governi nazionali e il potere di condizionamento esercitato dalle autorità europee e dai partner, come è avvenuto nel caso dell'Italia e della Spagna, e dall'altro il ruolo della Banca centrale europea. Gli ultimi giorni hanno creato dei precedenti significativi che, seppure causati dall'urgenza degli eventi e apparentemente nati come procedure ad hoc, possono però portare a modifiche permanenti dell'assetto istituzionale dell'Eurozona.

Sul fronte delle politiche economiche, l'area euro ha avuto fin dall'inizio la difficoltà di imporre ai Paesi membri una disciplina fiscale coerente con la moneta unica. I criteri di Maastricht e il Patto di stabilità nelle sue diverse versioni (compresa quella sconfessata da Germania e Francia quando sono state loro a violarne i limiti) si sono rivelati insufficienti. Finché la prima fase della crisi ha portato ai salvataggi di Grecia, Irlanda e Portogallo, con la concessione di aiuti internazionali in cambio di un programma rigoroso e verificato a brevi intervalli da quella che nei Paesi destinatari è stata ribattezzata la troika (i tecnici di Commissione, Bce e Fondo monetario): fin qui però nulla di radicalmente diverso da quanto applicato in passato ai Paesi emergenti e in via di sviluppo che si sono trovati in posizioni simili.

L'espansione del contagio a Italia e Spagna ha inaugurato la settimana scorsa modalità diverse: niente programma sottoscritto in modo formale con le controparti internazionali, niente troika, niente finanziamenti diretti ai Governi. Si è assistito però a un commissariamento di fatto, con una combinazione di pressioni fortissime dei mercati finanziari, della Bce (in cambio dell'acquisto di debito sul mercato secondario), delle altre capitali (Berlino e Parigi): una combinazione - il 'vincolo esterno' ricordato da Mario Monti - che si è rivelata, anche per effetto dell'emergenza, più efficace dello strumentario formale adottato in passato.

L'illustrazione più chiara si è avuta nel caso italiano, con l'inversione a 180 gradi fra i discorsi del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in Parlamento, mercoledì scorso, e la conferenza stampa, neppure quarantott'ore dopo, di annuncio, tra l'altro, dell'anticipo del pareggio di bilancio al 2013. In mezzo c'è stato il tracollo dei mercati, ma anche la lettera Trichet-Draghi e i richiami da Berlino.

La parte giocata dalla Bce su questo primo fronte apre una discussione sul secondo. Avendo, come in altre occasioni, riempito un vuoto istituzionale (chi è il prestatore di ultima istanza, il lender of last resort, dell'area euro?), la Bce è destinata ad assumere questo ruolo in modo permanente oppure ha semplicemente 'guadagnato tempo', in vista dell'arrivo di un Efsf, il fondo europeo salva-Stati, con un mandato più ampio come concordato al Consiglio europeo del 21 luglio, e magari con risorse più consistenti? La preferenza dell'istituto di Francoforte è chiaramente per un supplenza temporanea. «I mercati non recepivano il messaggio - ha detto ieri il suo presidente, Jean-Claude Trichet - e quindi abbiamo dovuto deviare dalle nostre regole». La Bce è consapevole, se non altro perché questo viene sottolineato da un corposo dissenso interno, che a rischio ci sono la sua credibilità e indipendenza (già più volte messa in discussione nel corso della crisi) e la distinzione fra ruolo monetario e fiscale con la proibizione statutaria a monetizzare il debito pubblico.

Gli interventi sulle obbligazioni di Italia e Spagna sollevano una serie di interrogativi: gli acquisti saranno costanti (i mercati hanno la possibilità di verificarli ogni lunedì, attraverso i dati pubblici della Bce)? Le dimensioni sufficienti, in un mercato enorme come quello del debito italiano, a comprimere gli spread ed evitare che si finisca in un bailout (come è avvenuto, nonostante gli interventi Bce, a Grecia, Irlanda e Portogallo)? La Bce riuscirà a sterilizzare, se necessario attraverso l'emissione di propri bond, le operazioni, pur così ingenti, perché non si riflettano sull'inflazione? La domanda di fondo, però, è se gli interventi della Bce siano semplicemente il precursore di quelli dell'Efsf o se - vista anche l'opposizione tedesca, ribadita ieri, ad aumentare le risorse di quest'ultimo - finiscano per diventare una funzione permanente. A quel punto, sostiene Stephen King, capo economista della Hsbc, la Bce assomiglierebbe sempre di più alla Federal Reserve del 2008-2009, con una massiccia espansione del proprio bilancio (e dei rischi assunti). L'alternativa potrebbe essere il collasso dell'euro o una grave depressione economica in Europa.

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