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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2011 alle ore 09:14.

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Per oltre mezzo secolo il dollaro non è stato solo la moneta degli Stati Uniti, ma la moneta del mondo intero, la divisa usata nelle transazioni internazionali e il bene di riserva più utilizzato da Banche centrali e Governi.
Già prima del recente pasticcio sull'innalzamento del tetto del debito, però, il biglietto verde aveva cominciato a perdere smalto. La sua quota sulle riserve in valuta estera delle Banche centrali, ad esempio, era scesa a poco più del 60 per cento, contro il 70 per cento di dieci anni fa. La spiegazione è semplice: gli Stati Uniti non dominano più l'economia mondiale come in passato. È più che logico che il sistema monetario internazionale segua la strada dell'economia diventando più multipolare. Così come ora gli Stati Uniti devono spartire il palcoscenico mondiale con altre economie, così il dollaro dovrà fare spazio ad altre valute internazionali. Nel mio recente libro, Exorbitant Privilege: The Rise and Fall of the Dollar, descrivevo un futuro in cui le valute dominanti a livello mondiale saranno il dollaro e l'euro. E sbirciando più avanti, di una decina d'anni o più, prefiguravo un potenziale ruolo internazionale anche per la valuta cinese, lo yuan renminbi. Escludevo un possibile ruolo per i Dsp (Diritti speciali di prelievo), l'unità contabile emessa dal Fondo monetario internazionale. I Dsp, essendo un paniere di quattro valute, possono risultare interessanti per Banche centrali e Governi desiderosi di cautelarsi dagli imprevisti, ma il processo di emissione è farraginoso e non ci sono mercati privati in cui possano essere scambiati. La conclusione a cui giungevo era che non esisteva nessuna alternativa realistica a uno scenario che vedesse dollaro ed euro continuare ad avere un ruolo dominante nelle transazioni internazionali.

La differenza adesso è che tutte e due le monete sono state colpite da un virus. Il penoso spettacolo del braccio di ferro sull'innalzamento del tetto all'indebitamento negli Stati Uniti spinge le Banche centrali a interrogarsi sull'opportunità di detenere riserve in dollari, mentre l'incapacità dell'Europa di risolvere la sua crisi del debito sovrano continua ad alimentare dubbi sulle chances di sopravvivenza dell'euro. Un tempo (meno di un anno fa) era possibile immaginare uno scenario con dollaro ed euro a interpretare la parte del leone nelle riserve valutarie mondiali; oggi le Banche centrali sono affannosamente alla ricerca di alternative ai due grandi malati.
Il problema è che queste alternative non ci sono. Il mercato dell'oro è limitato e volatile. I titoli di Stato cinesi restano inaccessibili. Le valute di seconda fascia, come il franco svizzero, il dollaro canadese e il dollaro australiano, anche sommate insieme fanno la figura di un nanerottolo. Ora che le Banche centrali sono alla ricerca di un'alternativa a dollari ed euro, non sarebbe il momento perfetto per potenziare i Dsp? Non è forse un'opportunità irripetibile per farla finita con un sistema che consente alla Fed e alla Bce di dettare legge sull'offerta di liquidità a livello internazionale? La risposta, sfortunatamente, è negativa: i Dsp rimangono un'opzione poco allettante per le Banche centrali deluse da dollaro ed euro. La ragione è evidente: le due monete rappresentano l'80% del paniere di valute che compone i Dsp. Espandere il paniere includendo le monete dei mercati emergenti aiuterebbe, ma fino a un certo punto, perché Usa ed Europa rappresentano ancora metà dell'economia mondiale e più della metà dei mercati finanziari liquidi. I Dsp offrirebbero poca protezione se il dollaro e l'euro perdessero valore nel tempo.

Un'idea migliore è cominciare da subito a creare un bene di riserva globale più allettante. Lo strumento ideale sarebbe un'obbligazione legata al Pil globale, i cui rendimenti varierebbero a seconda dei tassi di crescita dell'economia mondiale, come ad esempio i titoli emessi dai Governi di Costa Rica e Argentina, legati al tasso di crescita dell'economia nazionale. In questo modo le Banche centrali avrebbero la possibilità di detenere strumenti che si comportano come un portafoglio titoli globale largamente diversificato. Compenserebbero l'inflazione e il deprezzamento delle valute in America e in Europa perché i pagamenti sarebbero legati all'andamento del Pil nominale di queste economie, non del Pil reale. Il Fmi potrebbe usare il suo potere di emissione titoli per acquistare obbligazioni indicizzate al Pil emesse dai Governi nazionali, offrendo a questo nuovo bene di riserva mondiale copertura e capacità di produrre interessi, e creando al tempo stesso per i Governi un incentivo a emetterli. Robert Shiller, economista di Yale, sostiene da tempo che i Governi nazionali farebbero bene a emettere titoli di Stato indicizzati al Pil, perché è un modo meno pericoloso di indebitarsi, ma finora è stato difficile convincerli. Persuaderli ad appoggiare un bond indicizzato al Pil mondiale ed emesso dal Fmi sarebbe ancora più difficile. Ma se i Governi e le Banche centrali vogliono veramente individuare alternative al dollaro e all'euro, il momento per cominciare è adesso, e i bond legati all'andamento del Pil sono l'opzione migliore.

* Barry Eichengreen è professore di economia e scienze politiche all'Università della California (Berkeley).
© Copyright: Project Syndicate, 2011.
www.project-syndicate.org
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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