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Questo articolo è stato pubblicato il 13 agosto 2011 alle ore 08:16.

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C'è un dato che rischia pericolosamente di passare inosservato e va invece tenuto sempre a mente. I tre quarti dei soldi che da un po' di giorni in qua vengono quotidianamente spesi per sostenere i titoli italiani non sono italiani. Sono della Banca centrale europea e sono stati messi in moto sulla base di un'apertura di credito che parte dalla credibilità di Mario Draghi, attuale governatore della Banca d'Italia e da novembre futuro presidente della stessa Bce.

Questi soldi hanno consentito ai titoli sovrani della Repubblica italiana di recuperare oltre cento punti di spread rispetto ai titoli pubblici tedeschi, i Bund, e non è poco.

Il Berlusconi di oggi, reduce da settimane di minimo storico di credibilità politica, ha mostrato di avere capito la lezione, più di altri si è messo nei panni del "commissariato" e non si è nascosto dietro giri di parole: il trenta per cento dei soldi che ci stanno aiutando sono dei cittadini tedeschi.

Alcune "ostinazioni" tremontiane (tabù Iva, ritocco di aliquote Irpef per i redditi alti, scetticismo su alcuni temi-chiave della crescita) e bossiane (tabù pensioni) hanno impedito che una manovra certamente pesante di correzione dei conti pubblici, con 16 miliardi di tagli su 20 solo per il 2012, risultasse anche più strutturale, fino in fondo equa e in grado di coniugare correttamente il rigore e lo sviluppo possibili.

Su enti locali, ministeri e assistenza, le scelte operate entrano nella carne viva di sprechi e inefficienze, che andavano aggrediti da tempo, il punto è vedere (e vigileremo) se la linea di sbarramento tracciata lascerà spazio oppure no alle ennesime deroghe o, peggio ancora, a nuove addizionali destinate a gravare su cittadini e imprese.

Come è potuto accadere che un Paese, pieno di squilibri profondi e attraversato da un'irrisolta e diffusa questione morale e civile, riesca in pochi giorni a varare un decreto così impegnativo, ma rischi di bruciare tutto perché l'altolà della Lega impedisce di toccare l'ineludibile capitolo previdenziale e le resistenze del ministro Tremonti vietano di sostituire la "spremitura" ulteriore del ceto medio che lavora e i redditi li dichiara con un punto di Iva in più o con un aumento strutturale dell'aliquota che grava sui super-redditi? Uno o due punti di Iva in più (strada già intrapresa con successo fuori dall'Italia) avrebbero avuto sui consumi un effetto depressivo di certo ben più contenuto di quello che può arrivare dalla penalizzazione dell'unico ceto numericamente significativo che ancora consuma in Italia.

Sui tagli dei costi della politica (mini-Comuni, Province e altro ancora) è giusto riconoscere che si è fatto più di qualcosa anche se bisogna fare ancora di più. Liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi pubblici locali così come le liberalizzazioni annunciate per gli ordini professionali sono tutte decisioni che andranno viste in profondità ma si muovono nella direzione giusta. Il capitolo lavoro andrà anche quello guardato attentamente ma parte dalla centralità del contratto aziendale e appare, quindi, in linea con l'accordo siglato di recente da Confindustria e tutte le organizzazioni sindacali che ha l'obiettivo di innovare le relazioni industriali di questo Paese.

La prova di coesione attesa non c'è stata, la visione è ancora debole, la reazione però si è vista, c'è. In tempi non sospetti, avevamo avvertito: guai se l'Italia diventa lo "Stato da vendere". Costi quel che costi, a tutti i livelli e in tutte le responsabilità, ora e non domani, deve essere fatto il possibile (e l'impossibile) per scongiurare tale prospettiva.

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