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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2011 alle ore 10:31.
L'ultima modifica è del 23 agosto 2011 alle ore 10:31.

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Un successo militare non è una vittoria, ammoniva in queste ore convulse l'inviato russo per la Libia Mikhail Margelov, un tempo interprete ufficiale dall'arabo al comitato centrale del Partito comunista.

Ma un ex funzionario sovietico non può amare eventi come questo '89 arabo e forse voleva ricordare agli occidentali, se ce ne fosse bisogno, le amare esperienze del dopoguerra in Afghanistan, Iraq e nella dimenticata Somalia, perché è fin troppo chiaro che senza i raid aerei della Nato e i consiglieri militari gli insorti avrebbero perso la partita con Gheddafi.

Con due capitali, Tripoli e Bengasi, separate da centinaia di chilometri nella Sirte, un raìs in fuga, migliaia di uomini armati in circolazione e un regime allo sbando, la Libia non è certo in mani sicure. Non lo sono le frontiere di terra e di mare e neppure una vasta area, riserve petrolifere comprese, che si inoltra fino al Sahel in un orizzonte di sabbia delimitato dall'ignoto che confina con Algeria, Niger, Chad, Egitto, Sudan: una geopolitica insidiosa che non ha più il suo guardiano.

In queste condizioni di incertezza l'Alleanza atlantica dovrà probabilmente prolungare una missione che scade a settembre. La Libia del dopo Gheddafi è un Paese da riunificare, con la ricomposizione tra Tripolitania e Cirenaica, violentemente spezzata negli ultimi sei mesi e raggiunta, storicamente, soltanto durante la conquista coloniale italiana. Persino il monarca senusso Idris, bengasino, ricevuta l'indipendenza, volentieri avrebbe rinunciato alla Tripolitania: l'accettò spinto dalla Gran Bretagna, potenza mandataria dell'Onu.

Deve poi trovare un'unità politica convincente, che il Colonnello aveva ottenuto con la forza e il cinismo del "divide et impera" tra le tribù, sfruttando come hanno fatto molti autocrati, dall'iracheno Saddam al siriano Assad, marcate contrapposizioni regionali e antipatie ataviche tra i clan e le cabile.

La nuova Tripoli affronta comunque una sfida straordinaria ma complicata: darsi per la prima volta nella sua storia delle istituzioni e dei metodi democratici, o similari, in un Paese che non ha quasi mai avuto tradizioni di questo genere, dove la società civile è stata soffocata in un lungo sonno della ragione, ubriacata dalla retorica di Gheddafi sui comitati popolari e impaurita dalla repressione: la Libia è indipendente da 60 anni, dal dicembre del 1951, e per oltre 41 è rimasta sotto il pugno di ferro del Colonnello.

Certo che anche qui è arrivata la modernità, prima ancora di Internet, ma rimane un tenace Paese musulmano, forse più tradizionalista che radicale - nonostante la presenza di gruppi estremisti e guerriglieri molto attivi negli anni Novanta - assai conservatore nei rapporti sociali, come si vede nel ruolo assegnato alle donne, quasi del tutto assenti nella fioritura della primavera di Bengasi. È inutile dire che la Libia non è la vicina Tunisia, svezzata alla modernità dal laicissimo socialismo di Bourghiba, e neppure, ovviamente, l'Egitto, protagonista di tutti i grandi cambi culturali e politici del mondo arabo. La reciproca vicinanza però può avere un influsso positivo sulla Libia.

Se diamo uno sguardo d'insieme alla regione non possiamo non accorgerci che a metà del dicembre scorso, quando il giovane Mohammed Bouazizi si diede fuoco per protesta nella Tunisia profonda, è accaduto un evento fondamentale: è cambiata la sponda Sud, con il crollo di regimi senescenti come quelli di Ben Alì e Mubarak, e siamo cambiati anche noi.

Si potrà discutere ora se queste sono più rivolte che rivoluzioni. Ma è certo che non sono caduti soltanto dei dittatori, ritenuti fino a pochi mesi fa funzionali ai nostri interessi economici e strategici perché costituivano anche una barriera contro l'Islam radicale. Gli arabi scesi nelle piazze, e che stanno lottando in Siria, sono stati mossi da sentimenti di giustizia e libertà non così diversi da quelli che animano chi protesta nel resto del mondo. Per il momento non si è verificata neppure l'ipotesi, assai temuta, che l'alternativa a questi autocrati fosse soltanto la violenza islamista o la vittoria di al-Qaeda, agitata come uno spauracchio da Gheddafi.

Trascinati dai francesi, animati da un forte senso di rivincita nel Maghreb e da interessi specifici sul petrolio, gli alleati della Nato hanno abbattuto il regime del Colonnello: certo adesso bisogna "fare la Libia", evitare caos e anarchia, e sostenere i mutamenti nel resto del mondo arabo: nell'89 l'Europa fu pronta ad agire, con capofila Germania, protesa a Est nella riunificazione e dotata del super-marco. Tutto questo slancio non c'è più e siamo pure nel guado di una crisi economica senza precedenti: ma la sfida della Libia è anche nostra.

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