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Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2011 alle ore 08:51.

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Come finisce un raìs? La liquidazione di un leader e la fine di un regime a volte si sovrappongono, in altri casi non coincidono. Sono i rischi del mestiere di giornalista che non cambiano: due colleghi francesi feriti da pallottole vaganti, poi è venuto il rapimento di quattro italiani, Elisabetta Rosaspina, Domenico Quirico, Giuseppe Sarcina e Claudio Monici, che nel novembre 2001, soltanto per una coincidenza non viaggiò allora sulla stessa auto con Maria Grazia Cutuli e Julio Fuentes, trucidati dai talebani tra Kabul e Jalalabad. Devono tener duro e sperare che i lealisti di Gheddafi abbiano maggiore pietà che con il loro autista, ucciso, sembra, a bruciapelo.
Anche questo accade nell'anarchia sanguinosa e criminale che segue il crollo di un regime: è avvenuto in Somalia con la fuga di Siad Barre, in Afghanistan dopo i talebani del Mullah Omar e nell'Iraq occupato dagli americani nel 2003.

Ma perché Tripoli non è, ancora, Baghdad? Le immagini e i simboli della caduta, anche se evocativi, possono diventare fuorvianti. Passiamo così, con un riflesso automatico della memoria, dall'effigie di Gheddafi, che rotola sotto le scarpe di un ribelle, alla statua di Saddam, divelta in Piazza Paradiso da un tank americano. Il Colonnello che passeggia per Tripoli in fiamme - come afferma nell'ultimo messaggio - ricorda il dittatore iracheno acclamato in strada mentre gli americani entravano nella capitale.
Saddam, che contava su dozzine di bunker e la solidarietà dei sunniti, fu catturato otto mesi dopo dai marines in una tana sulle rive del Tigri, solo come un cane, la barba lunga, un giaciglio di coperte e un fornello a gas. I suoi figli, Uday e Qusay, erano già stati uccisi a Mosul con le armi in pugno. Lui era finito, il regime baathista crollato ma eravamo soltanto all'inizio di una sanguinosa parabola. La sua uscita di scena non decretò la fine del terrore ma l'ascesa di Al-Qaeda: il processo al raìs, seguito dall'impiccagione sulla forca, non pacificò il Paese.

Le similitudini ingannano ma anche le differenze. L'Iraq era un Paese occupato da una potenza straniera, in Libia l'intervento esterno è stato decisivo ma non ha ferito l'orgoglio nazionale, ha invece sostenuto lo sforzo bellico degli insorti. Gli Stati Uniti e l'Europa, insieme alla Turchia, qui sono alleati e soci in affari, che detengono quote congelate dei beni libici: l'Iraq, embargato da 12 anni, era ai margini dell'economia internazionale.
Le bombe della Nato per liberare dall'assedio Misurata non sono piovute dall'alto accolte da maledizioni contro l'Occidente: non c'è l'ostilità palpabile che si avvertiva in Iraq e Afghanistan in molti settori della popolazione.
Come valutare adesso i colpi di coda di un raìs che non si arrende? Il finale appare più determinante di quanto fu in Iraq. I resti di un regime fragile e inefficace si scontrano con un'altra debolezza, quella degli insorti, milizie volonterose ma incapaci di consolidare le conquiste e garantire la sicurezza.

I pericoli però vengono più dalle divisioni, tribali e regionali, dei vincitori che da un regime con lasciti indomabili. Le gerarchie del sistema Gheddafi sono più friabili di quelle di Saddam: nessuno dei vertici baathisti passò dall'altra parte, né prima né dopo la caduta. Izzat al-Douri, vice di Saddam, è ancora latitante. E le defezioni importanti, quelle dei generi del raìs, avvennero anni prima della guerra del 2003. I vice di Gheddafi, tranne i parenti, sono già nelle braccia dei vincitori. È chiaro, per esempio, che Jalloud, ex braccio destro del Qaid, è il candidato degli italiani nel governo di transizione: anche di questo discuteranno oggi Berlusconi e Jalil.
Come si concluderà la caccia a Gheddafi, alla quale partecipano pure le forze speciali inglesi, francesi, americane e arabe? La sua fine sarà anche quella dei temuti colpi di coda: lascia però un vuoto. La Nato non ha messo il piede a terra, ufficialmente, ma forse dovrà farlo qualche forza internazionale, dell'Onu, araba o africana: in Iraq furono gli Stati Uniti a mettere sotto controllo le frontiere, qui lo scatolone di sabbia rischia di franare lungo confini labili, immensi e spopolati. All'incertezza sulla sorte di Gheddafi si affianca un altro interrogativo urgente: saranno capaci i nuovi capi di diventare gli eredi, più o meno democratici, di un raìs minore?

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