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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2011 alle ore 07:53.
L'ultima modifica è del 01 settembre 2011 alle ore 08:34.
Di manovra in manovra cambiano gli interpreti ma il copione resta lo stesso. Il Governo individua dove tagliare, include nella lista le autonomie e, puntuali, partono le giaculatorie di sindaci, governatori e presidenti di Provincia: le prestazioni sociali sono a rischio, il federalismo è morto, il conto lo pagheranno i cittadini. Era così quando esistevano i trasferimenti statali ed è così anche ora che la riforma federale li ha pensionati.
La nuova frontiera di Regioni ed enti locali si chiama «patto di stabilità interno»: un meccanismo che ha i suoi difetti ma anche il grosso pregio di imporre un tetto all'indebitamento netto della Pa. E invece appena al centro si decide di stringere la cinghia in periferia si levano le proteste. Insieme all'equazione «nuova stretta uguale meno servizi» come se non esistessero alternative. Come se a livello locale non ci fossero sprechi da eliminare, ad esempio i vitalizi dei consiglieri regionali che spesso superano quelli dei parlamentari o costi del personale gonfiati a dismisura, grazie ad assunzioni caldeggiate dal primo cittadino di turno. Auspicare che alle critiche per una volta si accompagni un'auto-riduzione delle inefficienze significa forse chiedere troppo?
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