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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2011 alle ore 08:25.
L'ultima modifica è del 05 settembre 2011 alle ore 08:29.

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Lo stop alla cancellazione degli anni di laurea e del servizio militare dal computo dei 40 anni di anzianità necessari al pensionamento, senza riguardo all'età anagrafica, e la rinuncia ad affrontare il tema previdenziale all'interno della "manovra" di aggiustamento dei conti pubblici sono un'inevitabile resa all'improvvisazione e alle contraddizioni del provvedimento.

C'è da augurarsi che un simile passo indietro apra la strada a un percorso più meditato e condiviso in grado di affrontare una volta per tutte alcuni nodi irrisolti che si trascinano da oltre un quindicennio e che riguardano principalmente, come riconosciuto anche dal ministro Sacconi, la transizione verso il nuovo sistema.

Tale fase si potrà aprire se la classe politica (di maggioranza e di opposizione) e le parti sociali avranno il coraggio di adottare il linguaggio della verità, accettando di dare risposta univoca a una domanda molto chiara: sono o non sono disposti a sottoscrivere la formula contributiva di calcolo delle pensioni adottata con la riforma del 1995? Se la risposta è positiva, ne discende che quella formula - finanziariamente sostenibile, flessibile e rispettosa dell'equità entro e tra le generazioni - va applicata, senza ulteriori rinvii, a tutte le anzianità future, indipendentemente dalla loro durata, e a tutta la previdenza obbligatoria, correggendo le assurde esclusioni di allora: lavoratori che nel 1995 avevano più di 18 anni di anzianità, casse dei professionisti, politici. Esagerando, ma neppure troppo, si può paragonare l'applicazione parziale della formula pensionistica alla decisione di adottare la guida a destra in Gran Bretagna, lasciando però che i patentati di più lungo corso continuino con la guida a sinistra.

Per oltre 15 anni il Paese ha pagato gli squilibri che, complice l'invecchiamento della popolazione, sono derivati da questa esclusione con manovre e manovrine, sistematiche anticipazioni di decisioni prese per il futuro, forzati adeguamenti a "tirate d'orecchi" europee, sempre pensando che l'accorciamento naturale della transizione l'avrebbe resa sopportabile. La crisi economica ha rivelato l'illusorietà di tale posizione. Altri Paesi Europei (a cominciare dalla Svezia e a seguire con Germania, Francia e molti Paesi dell'Est) hanno adottato riforme simili, applicandole però immediatamente, con il pro rata, informando in modo trasparente i lavoratori, cercando di spiegare chiaramente i nuovi meccanismi e procedendo al rodaggio e alle piccole manutenzioni che inevitabilmente si impongono in un sistema tanto complesso. Da noi, no: le belle riforme che scaturiscono dalla nostra creatività le rimandiamo al futuro, nella speranza che passi "a nuttata".

Ci sono ora due ragioni, egualmente importanti, per correggere il tiro. La prima è la risposta che occorre dare al "rischio Paese". Ci piaccia o no, questo rischio impone sacrifici e, nell'ambito della spesa pubblica, è pressoché impossibile procedere lasciando inalterata quella pensionistica, che da sola pesa per quasi la metà della parte corrente, al netto degli interessi. Il modo più corretto per ridurre la spesa, peraltro, non è tagliare le pensioni, ma alzare l'età pensionabile, rendendola al tempo stesso flessibile e incoraggiando il proseguimento dell'attività lavorativa, con incrementi pensionistici che comportino non già una riduzione bensì un aumento della "ricchezza pensionistica" maturata, come avviene per un conto in banca nel quale si continuino a versare risparmi. Il metodo contributivo applicato in pro rata a partire dal 2012, con flessibilità di uscita tra i 63 e i 68 (o 70) anni consente di raggiungere tutto ciò, con un sensibile risparmio di spesa (una proposta più articolata è riportata sul sito http://cerp.unito.it).

La seconda ragione è un recupero della credibilità perduta dalla quale è derivato precisamente il maggior danno conseguente alle politiche del rinvio e dei "tamponamenti temporanei". Occorre superare l'errore comune secondo il quale le pensioni contributive vanno ripensate perché altrimenti esse saranno troppo basse per i giovani. Il che vorrebbe dire, com'è stato per decenni nella nostra tradizione, che basta un intervento normativo per avere pensioni sistematicamente più alte, e senza specificare chi ne sopporterà l'onere. In realtà, le pensioni dei giovani dipendono dalla crescita prima che dalle leggi ed è proprio la crescita che manca. Ritrovare la strada della crescita e contestualmente aggiornare il meccanismo pensionistico: ecco la prova verità che quest'autunno difficile impone. Vedremo se il Paese saprà superarla.

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