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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2011 alle ore 09:20.
L'ultima modifica è del 07 settembre 2011 alle ore 09:21.

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Riformare significa cambiare, rimettersi in gioco, e non a caso le riforme sono tanto faticose quanto impopolari. Una classe politica abituata a governare con i sondaggi elettorali alla mano (vale per l'Italia del berlusconismo e del suo opposto, ma vale in parte anche per la Germania di Angela Merkel e per la Francia di Nicolas Sarkozy) finisce inevitabilmente per restare prigioniera della sua inazione, bloccata dai veti politici incrociati e dalle pressioni, in sé legittime, delle più diverse lobby. Per non dire dei rancori personali che attraversano e avvelenano ogni terreno di confronto.

L'avventuroso viaggio della manovra dall'inizio di luglio a oggi ha messo impietosamente in mostra un deficit politico-decisionale che ha pochi precedenti. Abbiamo dovuto registrare anche i rimproveri della Spagna, che certo non ha brillato per virtuosismo economico e finanziario.

Italia e Grecia non fanno il loro "dovere" di risanamento e creano "sfiducia" sui mercati, ha ammonito Madrid. Sgradevole e improprio, il richiamo coglie però un punto di realtà. La Manovra da 45 miliardi (sulla carta) in attesa di essere approvata al Senato e di transitare alla Camera per l'approvazione definitiva, non rispondeva ai criteri basici di credibilità che soli possono assicurare all'Italia un sentiero meno pericoloso di quello che stiamo percorrendo tra una scivolata e l'altra.

Ieri si è così materializzato un nuovo aggiustamento. Torna in campo un "contributo di solidarietà" del 3% per i redditi sopra i 300 mila euro/anno, si mette mano all'aumento di un punto dell'Iva, si riapre il capitolo dell'età di pensionamento delle donne del settore privato, anticipando di due anni (al 2014) il percorso di parificazione rispetto al già toccato settore pubblico. A parte l'Iva (il cui maggiore gettito servirà a rendere più stabile la copertura finanziaria della Manovra e non in chiave pro-crescita) niente che abbia un significato davvero consistente. Insomma un ritocco, una accelerazione di governo in extremis che risolve almeno il problema delle coperture dentro una navigazione che resta a vista e che comunque rincorre il responso dei mercati. Che facciamo nella malaugurata ipotesi di una nuova grandinata di vendite dei titoli italiani? Una manovra tris da ricorreggere strada facendo tra un "no" e l'altro?

All'Europa, che pure ha le sue gravi responsabilità in termini di incompiuta governance politica, avevamo già fornito un carico rigoglioso di ragioni per alimentare perplessità e critiche. Misure che vivono, muoiono e resuscitano da un giorno all'altro, tra un vertice e l'altro, si sono alternate a passo di corsa. Naturalmente sotto la bandiera strappata dei "saldi invariati", che tutto erano meno che invariati e inviariabili. E fermo restando il solito "no" di fondo sulle pensioni della Lega di Umberto Bossi, che da fattore innovativo nella politica italiana si sta trasformando in un blocco di interessi conservativi.

L'Italia è "in codice rosso", potrebbe essere la porta da scardinare per poi stritolare l'euro, ma i medici distratti o in lite continua tra loro ciabattano di qua e di là somministrando e prospettando cure improbabili o poco incisive. Siamo appesi sui mercati al sostegno supplente della Banca centrale europea (Bce) che acquista i nostri titoli pubblici e che, in cambio, ci ha chiesto il pareggio di bilancio nel 2013. Lo spread tra i Btp decennali italiani e i bund tedeschi ieri è arretrato, ma non c'è alcun segnale che indichi che la tempesta stia per finire, come testimoniano i livelli record raggiunti dai credit default swap sull'Italia, i contratti che proteggono da una possibile insolvenza.

Conviene tenere a mente che abbiamo un debito di 1900 miliardi di euro e che da qui alla fine del 2011 (oltre al fabbisogno) dobbiamo finanziare titoli in scadenza per 130 miliardi, di cui circa la metà in questo mese di settembre (i soli titoli in circolazione da rinnovare nel 2012 ammontano a 250 miliardi). Non solo. Il Paese cresce dello "zerovirgola" (la Germania farà quest'anno +3%) e a due anni dall'avvio della ripresa, come certificato dalla Banca d'Italia, siamo cinque punti di Pil sotto i livelli precedenti la crisi. Meno crescita significa maggiore difficoltà per raggiungere il pareggio di bilancio e corsa più lenta nella flessione del debito pubblico.

Abbiamo insomma bisogno di tutto: del sostegno della Bce, della fiducia dell'Europa e dei mercati, della coesione interna politica e sociale (che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non si stanca di richiamare) per far fronte con tempestività e rigore ad una condizione di allarme e, insieme, per ritrovare la bussola della crescita. Non abbiamo invece bisogno della pioggia acida dei veti incrociati, degli scioperi in chiave politica, di un confronto tra maggioranza ed opposizione che trova un accordo facile sulla questione dei ponti festivi e non riesce a scrivere una pagina nuova, e condivisa, sulle pensioni.

Possibile che tra quasi mille parlamentari di Senato e Camera, siano solo il gruppetto dei radicali eletti nelle liste del Pd e pochi altri senatori e deputati di maggioranza ed opposizione ad insistere sul riassetto del nostro sbalestrato welfare?

Le riforme sono faticose ed impopolari, certo. Ma possono diventare anche popolari (e dunque buone per i sondaggi) se servono ad evitare l'infarto generale di un Paese restituendogli un orizzonte con meno tasse e più fiducia nel futuro. Naturalmente, ammesso che la politica lo capisca.

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