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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2011 alle ore 07:57.
L'ultima modifica è del 06 settembre 2011 alle ore 08:23.

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I meno giovani ricordano bene la lunga stagione delle "manette agli evasori". Quasi vent'anni, dal 1982 al 2000, che - almeno sulla carta - avrebbero dovuto contribuire a debellare l'evasione fiscale, già allora nervo scoperto del sistema economico italiano. Sappiamo che le cose non andarono esattamente così. La legge 516 dell'82 non sconfisse affatto il sommerso. In compenso, generò centinaia di migliaia di procedimenti penali che intasarono le già ingolfate Procure della Repubblica, prima di cadere puntualmente in prescrizione senza aver prodotto alcun effetto concreto.

Così, nel 2000, molti salutarono con favore la riforma voluta da Vincenzo Visco, la quale, rispetto alla filosofia precedente, puntava a un sistema capace di colpire penalmente solo le violazioni più gravi. La stretta sul penal-tributario che il Parlamento si appresta ad approvare non cambia certo questa filosofia di fondo. Tuttavia, l'abbassamento delle soglie di punibilità rischia di produrre effetti che probabilmente vanno ben al di là della sacrosanta necessità di colpire i veri evasori.

L'impressione è di trovarsi di fronte a una norma manifesto che appanna la già offuscata immagine del Paese e che ne comprometterne l'attrattività (diciamolo: chi si fiderà più di investire in Italia con la certezza del carcere per le contestazioni fiscali superiori a 3 milioni di euro?)
Tutto ciò - ed è questo l'aspetto veramente delicato - non solo (come deve essere!) per le violazioni di tipo sostanziale. Chi non presenta la dichiarazione, chi omette di pagare in tutto o in parte le imposte, chi falsifica i documenti contabili, chi emette o utilizza fatture false - insomma - chi si rende responsabile di condotte truffaldine per non pagare le tasse deve giustamente essere perseguito e condannato con il massimo rigore.

Lo stesso rigore non può però applicarsi quando l'accusa di evasione è frutto di un'interpretazione normativa. Quando l'accertamento del fisco si basa su una diversa valutazione circa la deducibilità o meno di un determinato componente, oppure quando in discussione sono l'annualità di imputazione di costi o ricavi. Tra elusione, abuso del diritto e antieconomicità, sappiamo come l'amministrazione sia sempre più propensa a contestare le scelte delle imprese. Insomma, un sistema fiscale cavilloso come il nostro lascia amplissimi margini di interpretazione delle norme, che poco o niente hanno a che vedere con l'evasione. In tutti questi casi, ogni accertamento effettuato nei confronti di un'impresa di medie dimensioni farà necessariamente scattare il penale, anche alla luce del dimezzamento delle soglie di punibilità. Con l'aggravante di pesanti effetti collaterali (ma qualcuno li ha valutati?) come il divieto di fare contratti con la Pa, previsto dal Codice appalti nei confronti di quanti hanno procedimenti penali in corso.

Che fare, allora? In queste ore si gioca la partita decisiva sulla manovra. Il Parlamento non deve farsi sfuggire la possibilità di correggere questa stortura. Ciò che serve è la definizione puntuale dei comportamenti dolosi in presenza dei quali si può applicare il penal-tributario. Tutto il resto, frutto di interpretazioni contrapposte, deve essere collocato nella sua sfera naturale, che è quella amministrativa.

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