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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2011 alle ore 09:07.

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Ci sono alcune cose difficili da capire della polemica che in questi giorni sta riguardando l'ormai famoso articolo 8 della manovra, quello che consentirebbe di derogare all'ancor più famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Siamo nel mezzo di una tempesta finanziaria che, ad ogni rialzo degli spread, brucia miliardi di euro e impone l'adozione di misure sempre più dure che o riducono i diritti dei cittadini o aumentano il prelievo fiscale.

La Banca d'Italia e la Bce hanno a più riprese sottolineato l'urgenza di riforme strutturali. Con la famosa lettera, Trichet e Draghi si sono spinti anche più avanti, precisando che è necessario rendere più flessibile il rapporto di lavoro stabile e proteggere i lavoratori precari. Per farlo, i riformisti di tutti gli schieramenti da tempo sostengono la necessità di rimodulare la disciplina legislativa del rapporto di lavoro, per superare il dualismo che caratterizza un diritto del lavoro troppo generoso con gli insider e troppo avaro con gli outsider.

La manovra presentata dal Governo, per quanto onerosa, non ha convinto i mercati, anche a causa della mancanza di interventi strutturali e dei continui ripensamenti in ordine ai contributi di "solidarietà" o alle pensioni di anzianità. Per ridurre un debito pubblico più grande del nostro Pil, alcuni già parlano di una patrimoniale da 200 miliardi di euro che, peraltro, sarebbe appena sufficiente a ridurre quel debito di un 10%.

E noi di fronte a tutto questo che facciamo? Siamo di nuovo fermi dinanzi all'ultimo tabù. A dieci anni di distanza torniamo a dividerci sull'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che prevede la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.

Segno inequivocabile della nostra paura di affrontare i più grandi problemi del debito pubblico e della concorrenza globale perché, a ben vedere, l'art. 8 non modifica né l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori né tantomeno le altre disposizioni che regolano il rapporto di lavoro.

Si limita, senza toccare il testo della legge, a consentire ai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale o territoriale ovvero alle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda secondo le norme di legge e i relativi accordi interconfederali, compreso quello dello scorso 28 giugno, di sottoscrivere contratti collettivi aziendali che, a fronte di maggiore occupazione o di investimenti, deroghino, in determinate materie e solo laddove il sindacato lo consideri necessario, alle discipline legislative, tra cui anche quella contenuta nell'art. 18.

Non per abolire i diritti costituzionali dei lavoratori o per rendere liberi i licenziamenti, come pure si è detto in questi giorni - perché è di tutta evidenza che nessun sindacato sottoscriverebbe un accordo di questo tipo - ma magari per sostituire discipline legislative vecchie di 40 anni, con nuove discipline di origine contrattuale al passo con i tempi ed in grado di individuare nuovi e più avanzati punti di incontro tra le esigenze dell'impresa e i diritti dei lavoratori.

A ben vedere, il Governo ha scelto di percorrere la strada meno traumatica per realizzare gli obiettivi richiesti dalla Bce. Invece di modificare la disciplina legislativa con conseguenze per tutti i lavoratori ha preferito lasciare ai sindacati la libertà e la responsabilità di valutare, di volta in volta ed in relazione alle singole realtà produttive, quale sia la miglior disciplina del rapporto di lavoro.

Certo, per il sindacato si tratta di una grande sfida. Ma è importante che anche la Cgil la raccolga, oltre ogni polemica, perché non possiamo affrontare la più grave crisi economica dai tempi del '29 paralizzati da antichi tabù.

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