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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2011 alle ore 06:41.

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Alla fine del 1930, il presidente Hoover aveva capito che la posizione debitoria della Germania stava per diventare insostenibile per la perdita di fiducia dei mercati nella capacità dei creditori (privati) tedeschi di ripagare l'enorme debito estero.

Al presidente era perfettamente chiaro che, per salvare non solo la Germania ma l'intera Europa e gli stessi Stati Uniti da una crisi senza precedenti, erano necessari prestiti pubblici (in sostituzione del credito privato) e la sospensione delle riparazioni di guerra imposte ai tedeschi dal Trattato di Versailles.

Ai collaboratori che gli chiedevano perché non prendesse subito l'iniziativa, Hoover rispondeva che era necessario che la situazione si deteriorasse ulteriormente perché si creassero le "condizioni politiche" per un intervento a favore della Germania. Sappiamo come andò. Nell'estate 1931, alla caduta dei redditi e dell'occupazione si aggiunse una crisi bancaria senza precedenti catalizzata dal ritiro dei capitali stranieri dalle banche tedesche. Solo allora l'opinione pubblica e le cancellerie compresero che la crisi avrebbe travolto non solo la Germania, ma l'intera economia mondiale e si crearono le "condizioni politiche" che resero possibile l'iniziativa di Hoover per una moratoria delle rate del debito di guerra tedesco. Questa giusta iniziativa arrivò fuori tempo massimo. Non bastò a evitare che il 1931 fosse il peggiore anno di pace di tutto il ventesimo secolo.

Nel 1930-31, le condizioni politiche che rendevano impossibile una razionale soluzione economica derivavano in buona misura dal rifiuto della "virtuosa" Francia, forte delle proprie riserve auree, di aiutare la Germania, accusata di avere anteposto una crescita dei consumi che non poteva permettersi al pagamento delle "giuste" riparazioni; ritenute "giuste" anche perché, nel 1871, la Francia aveva pagato senza tante storie in oro le riparazioni chieste dal nascente Reich vincitore. L'opinione pubblica francese era quasi unanime: i tedeschi dovevano pagare fino all'ultimo marco-oro la ricostruzione e le pensioni alle vedove e agli invalidi di guerra.

L'opinione pubblica tedesca, per parte sua, riteneva che la Germania fosse stata vittima a Versailles di un'enorme ingiustizia (Keynes più freddamente considerava il trattato di pace un'imbecillità). La posizione tedesca era resa più fragile dalla scarsa credibilità dei suoi governi e dall'avanzare del nazionalsocialismo. I punti di vista dei due elettorati non erano conciliabili e i governi di Parigi e Berlino dovevano tenerne conto, qualunque fossero le convinzioni private dei loro membri. Troppo tardi la Francia e le altre potenze creditrici si accorsero che la crisi dell'estate 1931 avrebbe sommerso, con la Germania, tutti gli altri.

La posizione della "virtuosa" Germania di oggi assomiglia a quella della Francia del 1930-31. La cancelliera Merkel è costretta a percorrere una strada assai stretta tra la consapevolezza che sono in gioco le sorti stesse del progetto europeo (dal quale la Germania ha tratto e trae grandi benefici) e un elettorato insofferente verso Paesi mediterranei percepiti come abituati a vivere al di sopra dei propri mezzi e incapaci di mettere ordine nella propria casa. L'Europa mediterranea, soprattutto l'Italia, per parte sua, si sente abbandonata dai ricchi vicini del Nord, obbligata a tirare troppo la cinghia, sottoposta a diktat umilianti. Sentimenti che assomigliano a quelli della Germania del 1930-31.

A Berlino e a Roma i governi si sono resi conto dell'estrema pericolosità della crisi; anche la conversione di quello di Roma è recente e forse incompleta, ma questa consapevolezza manca ancora alle opinioni pubbliche dei due Paesi. Ciò rende la Merkel cauta nel procedere lungo la strada non solo dell'eurobond ma anche di un minimo necessario di integrazione fiscale e il governo italiano attento a non scontentare i vari segmenti del proprio elettorato. Bisognerà, come nel 1931, che la crisi divenga più acuta perché si creino, a Berlino come a Roma, le "condizioni politiche" per coordinare le azioni necessarie? A quel punto sarà, come allora, troppo tardi? La storia non si ripete mai in modo meccanico, ma le analogie ci sono e suscitano domande angoscianti.

Come se ne esce? Il modo migliore sarebbe, come sarebbe stato negli anni Trenta, un'azione coordinata nella quale Germania ed Europa mediterranea facessero entrambe la propria parte. Perché ciò fosse possibile dovrebbe esistere a Berlino e Roma una leadership forte capace di parlare in modo convincente al proprio elettorato spiegando la gravità della crisi e la necessità di misure, ancorché impopolari, ancora oggi capaci di salvare l'Europa. In mancanza di questo, l'Italia non può che fare da sola, come la Germania del 1931, per il semplice fatto che, nell'immediato, è quella che ha maggiormente da perdere.

Deve farlo, come la Germania di allora, per se stessa non perché richiesta da altri. Non solo perché, piacciano o meno importa poco, i cosiddetti mercati devono rifinanziare il nostro enorme debito, ma soprattutto per lasciarsi alle spalle l'illusione durata troppo a lungo che la crescita possa essere nel tempo lungo comprata con spesa in disavanzo. In questo l'Europa non c'entra. Ma se l'Italia facesse uno sforzo credibile di mettere stabilmente in equilibrio la propria finanza pubblica salverebbe anche l'Europa. Dopo avere contribuito a crearla nel 1957, sarebbe questo un enorme merito storico. E darebbe torto al Financial Times (3 settembre) quando scrive che, potendo scegliere, «pochi avrebbero scelto l'Italia» come partner per salvare l'Eurozona

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