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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2011 alle ore 08:23.
L'ultima modifica è del 09 settembre 2011 alle ore 09:19.

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Intervenire sul corpo della Costituzione è sempre un'operazione assai delicata. Complessa da progettare, da scrivere e da approvare. Un'operazione per la cui buona riuscita diviene decisivo aver ben chiaro, innanzitutto, gli obiettivi che si intendono perseguire. E poi perseguirli in modo puntuale e non ambiguo. Ecco, su questa base, se l'obiettivo del Governo era quello di sopprimere le province, questo non sembra che sia accaduto. Anzi. Si sono poste le basi per la creazione di nuovi enti, le cosiddette province regionali, come ha sottolineato pubblicamente il ministro Calderoli.

Il disegno di legge costituzionale sulla «soppressione di enti intermedi», infatti, nonostante le pur apprezzabili e condivisibili intenzioni, ha semplicemente «degradato di rango» le province, facendole divenire enti non-costituzionali regionali. Questi enti associativi, formati da Comuni, espressi in forme associative (al plurale, dunque diversificati e disomogenei sul territorio nazionale, si badi bene…), vengono liberamente istituti dalle Regioni, senza alcun criterio né vincolo, tranne la previa intesa con il Consiglio delle Autonomie locali – fatto più formale che sostanziale, per «l'esercizio delle funzioni di governo di area vasta», prevedendo altresì che queste province regionali possano essere dotate di «organi, funzioni e legislazione elettorale».

A prima lettura, le conseguenze tecniche che emergono sul piano ordinamentale appaiono assai interessanti. In primo luogo, in questo processo di "de-costituzionalizzazione" delle province, se l'obiettivo è quello di rendere questi nuovi enti associativi non enti di governo (cioè non a competenza generale, intermedi tra i Comuni e le Regioni come emerge oggi, appunto, dalla lettura dell'articolo 114 della Costituzione), non si spiega, da un lato, perché sia previsto che essi siano creati per l'esercizio «delle funzioni di governo», a maggior ragione «di area vasta», ricalcando quella vocazione generale, sostanzialmente indicata riguardo alle province nell'articolo 19 del Testo Unico degli Enti locali; e dall'altro – e a fortiori – perché essi possano essere dotati di «organi, funzioni e legislazione elettorale», di modo che potenzialmente, tra i loro organi, eletti direttamente dai cittadini, non vi sarebbe differenza alcuna con quelli, eletti direttamente, delle attuali province.

Ne consegue che, invece di introdurre, sull'esempio degli ordinamenti anglosassoni, degli special districts, cioè enti funzionali locali, flessibili e leggeri, che possano sfruttare e far fruttare le eventuali economie di scala che potrebbero emergere nella gestione dei beni pubblici locali, eliminando le esternalità, riducendo i costi e prevenendo potenziali fenomeni di corruzione, le province regionali si differenzierebbero da quelle attuali – le province dello Stato – soltanto principalmente per due profili: quello del rango ordinamentale e quello dei costi. Oggi imputabili allo Stato, domani alle Regioni.

Forse un po' poco per una riforma costituzionale.
In secondo luogo, la scelta di affidare alle Regioni l'istituzione delle province, rafforza in modo sbagliato una vocazione monarchica – che naturaliter esiste – dell'ente Regione come ente di governo, invece di difendere, nel pluralismo delle comunità, quell'idea poliarchica di ordinamento, tipica di una Repubblica delle autonomie come noi siamo e come è rimarcato dall'articolo 114 della Costituzione. Questa concezione errata di centralismo regionale è ulteriormente evidenziata dalla soppressione della possibilità per i Comuni, ex articolo 132, comma 2 e articolo 133, comma 1, di staccarsi da una Regione ed aggregarsi a un'altra (eppure, anche di recente, non sono mancati casi – da Cortina ad Antrodoco – di queste volontà, più o meno realizzate).

Last but not least, la possibilità di istituire liberamente province regionali (senza vincolo alcuno anche rispetto alla dimensione dei comuni, su cui il testo infatti nulla dice), i cui organi sarebbero legittimati da elezioni di primo grado, potrebbe aprire scenari per ridisegnare anche i confini elettorali intra-regionali, portando a rilevanti e negative distorsioni sul piano della rappresentanza politica attraverso possibili operazioni di gerrymandering che potrebbero favorire, all'interno della stessa regione, una formazione politica piuttosto che un'altra.

Tutto cambia perché nulla cambi, dunque? Può darsi. Di certo una provincia rimane una provincia, anche se la si degrada, le si cambia nome e la si imputa ad altri.

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