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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2011 alle ore 13:22.
L'ultima modifica è del 18 settembre 2011 alle ore 13:35.

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Italia, Europa, Stati Uniti, Cina, gli altri Paesi ricchi e quelli emergenti sono tutti legati da un doppio e intrecciato filo rosso: economico e politico.

Quello economico è rappresentato dalla crisi finanziaria globale, che pur in misure diverse tutti ha colpito, causando difficoltà a creare legislativamente strumenti per superarla, con conseguente pericoloso aumento della disoccupazione e della povertà nel mondo, nonché stagnazione nelle produzioni di beni e nel commercio. Le manovre di austerità, che tagliano ogni incentivo alla spesa pubblica e sono imposte per placare i mercati dei titoli del debito pubblico, non paiono soddisfare gli speculatori, i quali non considerano tali manovre sufficienti a garantire il pagamento del debito che solo un'economia in crescita potrebbe assicurare. La manovra italiana, come del resto anche le altre, è una sorta di medicina omeopatica che a nulla serve per curare una malattia causata dall'ideologia del libero mercato, dalla libertà finanziaria e dalle sue innovazioni studiate per evadere i controlli sui flussi di capitali che si aggirano per il mondo.

Eppure nel 1944 gli accordi di Bretton Woods tentarono di costruire il sistema economico internazionale stabilendo un ordine finanziario globale, che portò alla creazione dell'Fmi e della Banca mondiale. Gli accordi produssero una straordinaria calma sui mercati globali, la quale riuscì a scongiurare le crisi finanziarie negli anni 50 e 60 del secolo scorso. Quella calma era garantita dal sistema dei cambi fissi, ancorati al dollaro, con i Governi che potevano controllare rigorosamente i flussi di capitale dall'estero, e impedirne sia la fuga, sia gli attacchi speculativi alla propria moneta. Restrizioni assai gravose sui sistemi finanziari interni impedirono così alle banche di imbarcarsi in operazioni estremamente rischiose e moderarono le loro capacità e abilità di leverage e di indebitamento. Ma negli anni 80 il sistema di Bretton Woods fu travolto appunto dall'ideologia della libertà finanziaria innovativa e senza regole che sostituì al governo della legge la governance della finanza, al rigore delle norme l'anarchia contrattuale globalizzata.

L'aumento intollerabile della disoccupazione, la forbice sempre più aperta fra ricchi e poveri in sistemi politici via via più fragili e ridotti a centri di affarismo, il disprezzo per l'ambiente e per la qualità della vita rappresentano il filo rosso politico. Da questo coacervo scaturisce un'inquietante reazione, quella degli "indignati", con tutte le caratteristiche di un variegato collante di rivoluzione globale. Dal Medioriente al Sudamerica, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dall'Europa all'Asia il nuovo grande problema politico è rappresentato dall'irrompere degli "indignati", che anche dove ancora non appaiono, covano sotto le braci dell'antipolitica. L'Occidente pare incastrato nell'irrazionalità e imprevedibilità dei mercati, incapace ormai di produrre norme efficienti, vittima com'è del famoso dilemma del prigioniero. E così, come i due prigionieri, impossibilitati a collaborare, scelgono l'opzione peggiore, poiché uno non si fida dell'altro, anche gli Stati difettano ciascuno di credibilità in misure e caratteristiche diverse.

Ma è proprio dalle considerazioni derivanti dall'esito del dilemma del prigioniero che gli Stati membri dell'Unione devono invece prendere spunto per difendere l'euro, ad evitare l'effetto domino, con una strategia cooperativa e non scioccamente egoistica, senza la quale il ritorno alle monete originarie costituirebbe una catastrofe per tutti. Ovviamente per la Grecia, dalla dracma ipersvalutata, ma anche per la Germania, con un marco supervalutato, e perciò bloccata nelle esportazioni e non solo all'interno dell'Unione, con caduta libera verso la depressione della propria baldanzosa economia.
La crisi è gravissima e il doppio filo rosso della globalizzazione impone una nuova normativa internazionale, simile a quella che si rese necessaria a Bretton Woods, ma con protagonisti diversi. Nello scacchiere mondiale globalizzato non è più solo l'Occidente a essere il referente, bensì anche e soprattutto la Cina e i Paesi emergenti, in una sorta di Commonwealth globale delle civiltà rispettoso dei diritti delle diverse culture.

Non è un caso che chi più di ogni altro ha auspicato il ritorno a una nuova Bretton Woods sia stato, come già da me riportato in un articolo sul Sole del 7 agosto scorso, il governatore della banca centrale cinese. Zhou Xiaochuan ha giustamente lamentato che il vincolo delle parità monetarie a Bretton Woods fu legato al dollaro e non al progetto di Keynes con l'introduzione di un'unità monetaria internazionale, il famoso Bancor. Contro le odierne superficiali descrizioni è con questa nuova cultura cinese che l'Occidente deve fare i conti, come confermano sia J. Stiglitz, in La globalizzazione e i suoi oppositori (Torino, 2006) sia G. Arrighi, nello straordinario volume Adam Smith a Pechino (Milano, 2007). Insomma, pare a me che le vie d'uscita dalla crisi globale debban tener conto nella formazione di nuove strategie dei pericoli del dilemma del prigioniero, della rivisitazione del pensiero keynesiano, e soprattutto della sostituzione di norme imperative ai vari sistemi di governance economica che dai diritti rifugge. È oggi necessario che i leader responsabili nella politica e nell'economia, in Italia e altrove, evitino la catastrofe che i molti cultori dell'Apocalisse vanno predicando insieme con le teorie del libero mercato, per non essere tutti costretti a scendere in piazza con gli "indignati", da quei leader responsabili creati e sovente eccitati.

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