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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2011 alle ore 08:04.
L'ultima modifica è del 20 settembre 2011 alle ore 08:28.

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di Stefano Folli
Il fatidico 25 luglio di Berlusconi è ancora di là da venire. Se ne parla da più di un anno, ma il premier è tuttora a Palazzo Chigi. Ammaccato, screditato, attaccato da ogni parte, ma sempre lì. Si dice e si scrive da tempo, non senza ragione, che la parabola berlusconiana è alla fine e che è irrealistico immaginare questo presidente del Consiglio e questo governo che arrivano indenni al termine della legislatura.

Mancava solo il rilancio della secessione nordista e domenica abbiamo avuto anche questo: un Bossi malato e stanco, ma pur sempre ministro della Repubblica in carica, che cerca di ritrovare il filo con la base tornando ai miti del tempo che fu, peraltro poche settimane dopo aver aperto gli uffici ministeriali a Monza. E lo fa con una proposta di referendum sulla Padania che ovviamente è impraticabile a causa di un ostacolo che si chiama Costituzione.

Questo è lo scenario senza precedenti che accompagna l'estrema fase del berlusconismo. S'intende che non ci sono facili vie d'uscita. Da un lato l'immagine consolatoria del leader che riprende in mano il bandolo della matassa, dimentica le mille ragazze da cui è stato allietato per anni e si dedica con tutto se stesso al buon governo del paese, è piuttosto velleitaria: sembra fuori tempo massimo e fuori della realtà. Dall'altro lato, se anche fossimo ala vigilia del 25 luglio, non si vede il Dino Grandi della situazione e nemmeno, in prospettiva, il Badoglio.

Qui non ha torto Giuliano Ferrara che per primo usò l'immagine del Gran Consiglio mussoliniano: il rischio che la caduta di Berlusconi comporti, non una ripresa di spirito civico, bensì una sorta di 8 settembre non è campato in aria. Peraltro da mesi l'opposizione chiede senza molta fantasia le dimissioni dell'eterno avversario (addirittura le reclama «ad horas», secondo le parole di Bersani), eppure non sembra in grado di affrontare con idee chiare l'eventuale fase di transizione. Dell'asse Bersani-Di Pietro-Vendola si potrà dire tutto, tranne che sia coeso. Infatti il più dotato di senso pratico resta Casini che però è ormai quasi agli antipodi dell'alleanza di sinistra Pd-IdV-Sel.

Quindi lo scenario è poco incoraggiante. Si vive nella vaga attesa del 25 luglio perché non si ha la minima fiducia nella capacità di ripresa dell'attuale governo. Inoltre si ha la sensazione che il pasticcio sessual-giudiziario in cui Berlusconi è invischiato, e che ha minato la credibilità internazionale dell'Italia, sia soprattutto un acceleratore dei fattori di logoramento politico che esistono al di là delle intercettazioni e delle serate allegre di Palazzo Grazioli.

È il logoramento figlio di una maggioranza esaurita: un Pdl e una Lega costretti a stare insieme, ma privi di un progetto, di un'idea del paese. D'altra parte, l'opposizione non ha saputo sfruttare gli anni berlusconiani per costruire un'alternativa convincente, fondata su una leadership riconosciuta. Ed è precisamente in questo vuoto che si è bruciata la Seconda Repubblica.

Ora l'immediato futuro è denso d'incognite. L'eventuale caduta di Berlusconi, personaggio chiave degli ultimi 17 anni, non sarebbe comunque indolore. Governo di transizione, di unità nazionale, elezioni anticipate: tutte le ipotesi sono legittime, tutte sono difficili da realizzare in pratica. E intanto si continua ad attendere il 'casus belli'. Che probabilmente in questa settimana è a portata di mano: il voto segreto sull'arresto di Marco Milanese. Le condizioni per il colpo di scena ci sono tutte. Se l'ex collbarotare di Tremonti finisse in carcere, la maggioranza potrebbe essere scossa da un 'effetto domino' destabilizzante. Ma i colpi di scena, per loro natura, non si annunciano in anticipo.

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