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Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2011 alle ore 08:01.
L'ultima modifica è del 29 settembre 2011 alle ore 08:18.

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C'è voluto un anno di negoziati sussultori nel vortice di una bufera senza fine per partorire l'accordo sulla nuova governance economica dell'euro: più severa e allargata e, si spera, più efficiente e credibile. L'Europarlamento ieri ha dato il via libera e il cerchio si è chiuso: finalmente ma solo momentaneamente. Già, perché questa Europa incapace di coraggio e lungimiranza, che brancola a tentoni sotto i morsi dei mercati, pare condannata alle fatiche di Sisifo: non fa in tempo a chiudere un cantiere che è costretta ad aprirne altri.

E così l'accordo del 21 luglio scorso sul rafforzamento del fondo salva-Stati (Efsf) non è ancora stato ratificato da tutti i 17 parlamenti nazionali (oggi il turno del Bundestag) ma già si ipotizza di quadruplicarne le risorse: sarà la quarta riforma consecutiva di un meccanismo creato poco più di un anno fa. E così per la nuova governance dell'euro nata ieri a Strasburgo ce n'è già un'altra, concepita a metà agosto, in gestazione tra Berlino e Parigi: sarà uno dei pezzi forti da discutere al vertice europeo di Bruxelles di metà ottobre.
Verrebbe da dire che, presi in mezzo tra mercati impazienti ed elettori sempre più riluttanti, i Governi europei non sappiano mai far di meglio che giocare di rimessa e in ritardo, lasciandosi risucchiare in un gorgo di decisioni che di fatto controllano solo in modo marginale.

In realtà se la nuova governance dell'euro nasce "bifronte", o meglio si ritrova subito a fare i conti con il suo doppio, non è perché la formula comunitaria non ha retto la prova dei mercati (che ancora deve venire) ma perché si scontra con i paralleli disegni di potere tedesco-francesi che ormai puntano quasi tutto su un modello intergovernativo sempre più sganciato dalle istituzioni europee tradizionali.
Non a caso Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno indirizzato le proposte di agosto soltanto al presidente del Consiglio Herman Van Rompuy e non anche, come avviene di consueto, a quello della Commissione José Barroso. Non a caso a Van Rompuy, il loro "proconsole" a Bruxelles, viene offerta la futura presidenza permanente dell'Eurogruppo: non a Jean-Claude Juncker, il premier lussemburghese che da sei anni la detiene a livello di ministri finanziari, uno dei padri dell'euro colpevole però di un europeismo archiviato da quasi tutti.

Non a caso il loro euro-governo prevede l'integrazione delle politiche economiche e di bilancio sempre più in salsa tedesca, anticipando i tempi della stretta sui mega-debiti e delle riforme strutturali, della base comune consolidata per le imposte sulle società (che spacca l'Ue), insistendo sull'utilizzo punitivo e non solo costruttivo dei fondi europei per chi non stia alle regole.
La Commissione Ue, garante dei Trattati e dell'interesse generale europeo, è solo un'evanescente comparsa nello schema tedesco-francese. Tanto è vero gli Stati medio-piccoli, a cominciare dai nordici iper-rigoristi come Olanda e Finlandia, sono già sul piede di guerra per sbarrargli la strada. Era già successo in giugno con la rivolta contro il patto euro plus presentato da Parigi e Berlino, anche se poi le proposte che allora sono state cacciate dalla porta stanno ora rientrando dalla finestra del nuovo negoziato che andrà presto a incominciare.

A riprova che dietro la crisi dell'euro, che tiene il mondo intero con il fiato sospeso, di sicuro ci sono Grecia, debiti sovrani, banche e divari di competitività intra-Ue. Ma c'è soprattutto una crisi strutturale politica e istituzionale che si incrocia, aggravandola, con quella economico-finanziaria eccitando gli appetiti degli speculatori.
Questa confusione senza fine nella cabina di pilotaggio dell'euro non aiuta nessuno, men che meno i Paesi dai troppi problemi irrisolti, tra cui l'Italia, destinati a convivere con una nuova governance europea che, comunque vada, promette più austerità e niente stimoli né risorse per crescita e occupazione.
«Senza più integrazione, l'Europa scivolerà nella frammentazione» avverte Barroso. La Polonia, che non è nell'euro ma è presidente di turno dell'Unione, ne teme a tal punto la disintegrazione che domenica il suo intero Governo ha partecipato a Varsavia a una messa speciale per invocare la solidarietà nella crisi attuale in nome «dell'unità spirituale e dei valori comuni europei». Esistono ancora?

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