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Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2011 alle ore 08:03.

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Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio che lamenta (talvolta anche a ragione) di non avere abbastanza poteri, anzi di averne meno di altri primi ministri europei, avrebbe una magnifica occasione per esercitarne uno e non secondario: quello di nominare il governatore della Banca d'Italia. E' una sua prerogativa, limpida e incontestabile. I successivi passaggi, dalla stessa banca centrale al Quirinale, non dovrebbero toccare il merito della scelta, ma risolversi in una procedura di ratifica.

Come si spiega allora questa esitazione? I tempi sono maturi, dal momento che si avvicina il giorno in cui Mario Draghi prenderà l'aereo per Francoforte. Il governo di Roma, la cui credibilità politica non è allo zenit, avrebbe tutto l'interesse a chiudere la vicenda entro giorni e non settimane. Sappiamo del resto cosa pensa la Banca d'Italia. Desidera che sia rispettata, anche sul piano dei simboli, la sua «autonomia». Vuole quindi che il nuovo governatore sia prescelto all'interno dell'istituto, secondo una tradizione che ha conosciuto in tempi recenti ben poche eccezioni. Tale fu Draghi, in effetti, ma le circostanze erano eccezionali, visto che via Nazionale era reduce dalle dimissioni traumatiche di Fazio.

Ora il quadro è del tutto diverso. Draghi ha ottenuto un prestigioso riconoscimento con l'ascesa alla guida della Bce e la Banca d'Italia vuole preservare il filo della continuità. Il nome di Fabrizio Saccomanni riflette esattamente l'identikit gradito all'istituto e a un largo «establishment». Tuttavia è noto che Giulio Tremonti e la Lega dietro di lui preferiscono la nomina di Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro, molto stimato anche all'estero.

Nel gioco delle simbologie, talvolta ingiuste ma inevitabili, Grilli è dunque il candidato del ministro, mentre Saccomanni è il candidato di Palazzo Koch e del governatore uscente. «Rispettare l'autonomia» vuol dire: sì a Saccomanni e no a Grilli, anche se la semplificazione brutale è fuorviante. Ma tant'è. La lotta di potere è aspra. La posta in gioco è il raccordo Francoforte-Roma e il reale controllo della politica economica. O se vogliamo il contrasto riflette il lungo, sotterraneo dissidio fra Tremonti e Draghi che continua per interposte persone.

Berlusconi dovrebbe decidere e invece guadagna tempo. E' uno di quei casi in cui vorrebbe davvero avere meno poteri di quanti ne possiede. E soprattutto vorrebbe che altri, magari il Quirinale, lo affiancasse nella scelta. Ma così non può essere e Napolitano si è tenuto lontano dalla «querelle», anche se senza dubbio ha una sua idea in merito e certo non gradisce la tattica temporeggiatrice che finisce per danneggiare lo stesso istituto.

Si torna dunque al quesito di fondo: perchè esita Berlusconi? Perchè non vuole scontentare nessuno. Ha bisogno della Banca d'Italia (lo si è visto nei tormentati giorni della manovra) non meno che della benevolenza del capo dello Stato. D'altra parte non può ignorare Tremonti con cui ha appena stipulato una tregua. Ancor meno può infischiarsi di una Lega alla quale deve, giorno per giorno, la sopravvivenza dell'esecutivo. Come si è visto ieri alla Camera, nella seduta nervosa e chiassosa che ha rigettato la sfiducia al ministro Romano. Bossi non ha motivi particolari per privilegiare Grilli rispetto a Saccomanni, ma in questo caso sta dando una mano al ministro dell'Economia. E, come si è detto, Berlusconi non sottovaluta l'insidia. Ma sa bene che la scelta di Grilli verrà attribuita da tutti a Tremonti e non a lui.

Tutto lascia pensare che alla fine il premier sceglierà la figura più gradita alla Banca d'Italia. Ma ci arriverà attraverso un percorso lento e tortuoso, che già oggi suscita interrogativi, offrendo facile esca alle opposizioni (si veda il documento congiunto Bersani-Casini). Comunque vadano le cose, la capacità di «leadership» di Berlusconi avrà subito un ulteriore appannamento. Ci si logora anche così.

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