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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2011 alle ore 08:34.
Gli Stati Uniti tornano ad accusare la Cina di protezionismo valutario. E Pechino torna ad accusare Washington di politicizzare il cambio dello yuan per mascherare i problemi strutturali dell'economia americana.
Certo Pechino, quando c'è da tutelare i suoi interessi non si fa scrupoli di nessun genere. Ma se ogniqualvolta gli Stati Uniti avvertono salire la pressione cinese, tentano di alleggerirla rispolverando il sacro principio della concorrenza sleale, non si va lontano.
Era accaduto anche un anno fa, giusto di questi tempi, quando il Congresso Usa propose un disegno di legge analogo a quello approvato lunedì scorso dal Senato per imporre dazi punitivi contro il made in China. Ma la proposta, sostenuta da un ampio schieramento bipartisan, dopo aver scatenato una tempesta diplomatica tra Pechino e Washington, finì nel dimenticatoio.
Sembra quasi che Washington, messa sotto scacco sul fronte del debito, irritata dall'espansionismo cinese nel Pacifico meridionale per contrastare la superpotenza asiatica non abbia altra arma se non quella della retorica fine a se stessa. Invece, forse, nell'interesse di tutti, sarebbe il caso di affrontare la questione con sano realismo. Realpolitik avrebbe detto Harry Kissinger.
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