Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2011 alle ore 10:39.

My24

Massicci acquisti di debito pubblico da parte della Banca centrale europea e un altro round di ricapitalizzazioni delle banche sono la strada da percorrere per una via d'uscita alla crisi dell'eurozona. Anche così, l'economia europea ha davanti a sé probabilmente un decennio di bassa crescita. E di "represssione finanziaria".

Carmen Reinhart, l'economista del Peterson Institute che ha scritto con Kenneth Rogoff il best-seller This time is different e ha appena prodotto, con lo stesso coautore, A decade of debt, è uno dei massimi esperti di debito sovrano. E la sua prognosi per l'area dell'euro, in un'intervista al Sole 24 ore, è dichiaratamente pessimista. Anche se non vede all'orizzonte una rottura dell'euro («non andrebbe a vantaggio di nessuno») e nemmeno una ristrutturazione del debito italiano o spagnolo.

La lezione delle passate crisi del debito sovrano per l'attuale situazione di Eurolandia è, secondo Reinhart, che molto raramente si esce da una situazione di alto debito grazie alla crescita. «È accaduto in Irlanda negli anni 80 - sostiene - ma è un episodio isolato. Di solito, il deleveraging produce un lungo periodo di bassa crescita e spesso una ristrutturazione del debito, che può avere conseguenze disastrose, come in Argentina nel 2001, o miti, come in Uruguay nel 2002, a seconda delle condizioni di partenza e dell'approccio nei confronti dei creditori. In Europa oggi, una ristrutturazione è lo scenario di gran lunga più probabile per la Grecia, ma anche per l'Irlanda, che ha fatto un grande sforzo di risanamento, ma su cui continua a incombere la difficoltà del settore immobiliare e quindi delle banche, e per il Portogallo, che ha tuttora un deficit di parte corrente oltre il 9% del Pil che non è finanziabile».

L'economista di origine cubana è convinta invece che Italia e Spagna possano farcela senza ricorrere a una ristrutturazione del debito Per l'Italia, in particolare l'alto debito pubblico «non è un fatto nuovo, mentre il settore privato non soffre di un alto indebitamento, come altrove». La nuova parola d'ordine è repressione finanziaria. «Come è spesso avvenuto storicamente in situazioni del genere - afferma Reinhart - si devono costringere gli investitori ad assorbire debito pubblico. È un problema comune oggi a tutti i Paesi avanzati: tassi d'interesse tenuti molto bassi, limiti ai flussi di capitale e altre misure, insomma la fine del laissez-faire finanziario degli ultimi decenni. Del resto, già Basilea 3 impone alle banche di acquistare titoli di Stato».

Carmen Reinhart è contraria all'uso del termine contagio nel caso di Italia e Spagna. A suo parere, non è solo un problema semantico. «Si ha contagio - sostiene - quando la casa è tutto sommato in ordine (penso al Messico nel 1994 o ai Paesi asiatici a fine anni 90) e i mercati ti spingono in un attimo sull'orlo dell'insolvenza nonostante buoni fondamentali. Non è così in Italia e Spagna: i fondamentali non sono a posto. In Italia per l'alto debito pubblico e in Spagna per la bolla immobiliare, il debito privato e la crisi delle cajas, che si sono trasformati in un problema fiscale. Poi, del contagio manca l'effetto sorpresa, dopo tutti quei downgrading e tutti quei fallimenti della risposta politica europea».

La via d'uscita per Eurolandia passa attraverso un percorso obbligato. Anzitutto, la stabilizzazione del mercato del debito pubblico. «Gli acquisti di titoli da parte della Bce - dice Reinhart - devono continuare e anzi essere rafforzati, anche se ciò comporta una monetizzazione del debito». In secondo luogo, la ricapitalizzazione anche forzosa delle banche, fino a qualche tempo fa osteggiata dalle autorità europee, ora accettata come ineludibile. «Le banche europee - afferma l'economista - sono alle prese non solo con il portafoglio di debito pubblico, ma anche con l'esposizione al settore immobiliare, in alcuni Paesi, e in genere con un'economia in forte rallentamento. In passato, le banche si sono finanziate con fondi privati non europei, ma questo canale si è seccato. Va rimpiazzato con fondi pubblici e investitori nazionali. Torniamo al discorso della repressione finanziaria».

La studiosa del Peterson Institute rifiuta di fare previsioni sul prossimo futuro dell'attività economica nell'area del'euro. «Io non faccio previsioni - spiega - faccio ricerca. E l'analisi mi dice che il decennio successivo alle crisi finanziarie è un decennio a bassissima crescita. Lo sforzo di abbassare il debito, pubblico e privato, può durare 5-7 anni e portare a 10 anni di crescita lenta». È convinta però che la fine dell'euro, o l'uscita di alcuni Paesi, non sia alle viste, anche perché non converrebbe a nessuno. «La ristrutturazione del debito - sostiene - non porta alla fine dell'euro. Sono pessimista sulle prospettive dell'eurozona, nel senso che non credo possa farcela senza la ristrutturazione anche pesante del debito di alcuni Paesi. Ma che vantaggio deriverebbe alla Grecia da un'uscita dall'euro, con un export senza potenziale e con un debito che si trasformerebbe tutto in debito estero? E che vantaggi avrebbe la Germania, che finora ha goduto della forza delle sue esportazioni e che vedrebbe la sua valuta schizzare in alto? La rottura dell'euro non è una strada a senso unico. Certo - conclude - se la questione diventa politica, non sono la persona giusta per interpretare gli scenari politici».

Shopping24

Dai nostri archivi