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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2011 alle ore 08:15.

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Questa volta non è facile dire che tutto è bene quello che finisce bene. Un Parlamento che fatica a eleggere in seduta comune un giudice della Corte costituzionale, nonostante gli accordi preliminari e un "quorum" sceso ai tre quinti dei votanti, è un Parlamento attraversato da contrasti paralizzanti.

Non solo: un centrosinistra che non riesce a gestire al meglio l'elezione di un suo esponente, peraltro prestigioso, e alla fine se la cava per il rotto della cuffia con un voto di scarto, ha il dovere d'interrogarsi sulla propria identità e sull'efficacia della prospettiva di governo che si prepara a offrire agli italiani.

Il protagonista suo malgrado di questo psicodramma è persona assai stimata, l'ex ministro Sergio Mattarella, Pd proveniente dal partito popolare (e tra l'altro padre della famosa legge elettorale, il "Mattarellum", che potrebbe essere ripristinata dal referendum su cui pende il giudizio della Consulta). Nel corso delle quattro votazioni il candidato ha perso consensi in modo netto e costante ed è stato eletto ieri sera con 572 voti, ben 20 in meno di quanti ne aveva raccolti nel pomeriggio, quando il "quorum" era più alto.

Un simile percorso a ostacoli segnala un serio problema politico nel centrosinistra e probabilmente anche all'interno del Pd. Ci sono parecchi nodi irrisolti, senza dubbio anche al di là del caso Mattarella; nodi che indicano equilibri saltati, lotte di potere senza esclusione di colpi, sospetti reciproci. Ad esempio, lo spettacolo che ha accompagnato l'elezione del presidente dell'Anci, con le baruffe tra fazioni del Pd, i sostenitori di Emiliano contro quelli di Delrio, poi eletto, non racconta nulla di positivo sullo stato del partito.

In ogni caso la giornata vissuta a Montecitorio dimostra quanto sia fragile ed esposto a ogni vento il «cartello» tra Bersani, Di Pietro e Vendola che ha preso forma nelle ultime settimane. Con gli ultimi due protesi più che altro a preparare il terreno per le "primarie" da cui dovrà scaturire il candidato a Palazzo Chigi. È un fatto che l'Italia dei Valori non ha mai votato Mattarella, con l'argomento che occorre opporsi alla «lottizzazione» degli incarichi istituzionali. Il che vuol dire solo una cosa: Di Pietro è già in campagna elettorale, per sé e per il suo partito. E il suo bersaglio preferito è proprio il suo alleato: il Pd, appunto.

Non è la prima volta e non sarà l'ultima. Come si fa a non vedere che l'accusa di lottizzazione equivale quasi a un atto di guerra e promette burrasca sui futuri rapporti Pd-IdV? Lo strascico del caso Mattarella non sarà irrilevante, dentro e fuori il partito di Bersani, e anzi annuncia le tensioni che scandiranno il processo delle "primarie".

Tutto questo accade mentre la polveriera delle intercettazioni è esplosa in commissione. Non c'è da stupirsi. Nonostante il compromesso sui "blog" e i siti internet, come Wikipedia, era impensabile che il buonsenso potesse prevalere in questo clima politico. Da un lato gli emendamenti del Pdl, duri e punitivi verso i giornali. Dall'altro i tentativi di apertura e di mediazione dell'Udc presto arenati, tanto più che le dimissioni della presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, esponente di Futuro e Libertà, vicina a Fini, fanno capire che non tutto è lineare e ben coordinato nel «terzo polo». I falchi e le colombe esistono ovunque.

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