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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2011 alle ore 08:09.
L'ultima modifica è del 06 ottobre 2011 alle ore 08:34.

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Un Nobel alla testardaggine e al metodo scientifico basato sui risultati sperimentali. L'Accademia Svedese delle Scienze ha assegnato il Nobel della chimica al settantenne Daniel Shechtman, dell'Istituto di tecnologia israeliano Technion, che 29 anni fa scoprì l'esistenza dei quasi cristalli: strutture solide ritenute semplicemente impossibili. La scoperta fu considerata talmente improbabile che il capo del suo laboratorio gli consigliò di andare a rileggersi i manuali di cristallografia, per capire come è fatta "veramente" la materia.

In realtà, anche la prima reazione di Shechtman era stata un misto di incredulità e di sorpresa. La mattina dell'8 aprile 1982 il ricercatore stava osservando al microscopio elettronico nei laboratori dell'Istituto nazionale statunitense per gli standard e tecnologie Nist un metallo composto da alluminio e manganese per studiarne la struttura atomica. Osservando come le radiazioni elettromagnetiche erano deviate dagli atomi, si accorse che questi ultimi sembravano disposti in cerchi a distanze differenti: una conformazione proibita dalle leggi allora conosciute. I cristalli, infatti, si caratterizzano per avere una struttura atomica o molecolare costante che si ripete nello spazio con regolarità.

L'immagine però non mentiva, e Shechtman si convinse che doveva dare più retta a ciò che vedeva rispetto alla teoria che aveva studiato. Costretto a lasciare il suo gruppo di ricerca, gli venne in aiuto la matematica. A metà degli anni 70 Roger Penrose aveva dimostrato come fosse possibile comporre, usando unicamente tessere di due forme differenti, un puzzle le cui figure non si ripetono mai. Curiosamente, le composizioni che si ottenevano con quella tecnica ricordavano l'arte araba medievale. Applicando questo stesso concetto matematico, il cristallografo Alan Mackay nel 1982 aveva dimostrato teoricamente che una struttura molecolare simile al puzzle di Penrose avrebbe prodotto al microscopio elettronica delle immagini circolari composte da dieci punti luminosi, ossia proprio la conformazione scoperta dal ricercatore israeliano. Quando il collegamento fra teoria ed esperimento fu tracciato, il risultato di Shechtman divenne più probabile, e i suoi cristalli aperiodici furono considerati alla stregua di «mosaici arabi atomici».

Nel 1992, così, l'Unione internazionale di cristallografia cambiò la definizione di cristallo, passando da sostanze i cui atomi presentano un ordine regolare che si ripete, a solidi che producono un «diagramma di diffrazione discreto», comprendendo così anche i quasi cristalli. Queste sostanze, d'altronde, sono diventate più comuni e ne sono state prodotte artificialmente diverse centinaia. Due anni fa, in un fiume russo, fu rinvenuto anche un quasi cristallo naturale composto da alluminio, rame e ferro.

«Questo premio - sottolinea Luigi Campanella, ordinario di Chimica all'Università La Sapienza - conferma qual è la nuova frontiera della chimica, ossia quella dei nuovi materiali. Materiali non ancora noti che possono esser usati per una pluralità di applicazioni differenti» e per rispondere alle sfide che abbiamo di fronte, a partire da quella ambientale. Dal punto di vista delle applicazioni oggi i quasi cristalli sono usati per produrre acciai particolarmente resistenti utilizzati per lame di rasoio o aghi chirurgici. Le loro caratteristiche termiche li rendono anche utili nei materiali termoelettrici capaci di convertire il calore in elettricità. Niente male per dei solidi che non dovevano neanche esistere.

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