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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2011 alle ore 09:31.
L'ultima modifica è del 08 ottobre 2011 alle ore 10:33.

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Ora che il governatore del New Jersey Chris Christie e l'eroina conservatrice Sarah Palin hanno ribadito il loro no alla candidatura presidenziale alle primarie repubblicane di gennaio, il campo degli sfidanti di Barack Obama dovrebbe essere definito. A questo punto è difficile che a qualcun altro, ammesso che ci sia, venga in mente di candidarsi. Il tempo è quasi scaduto. Le possibilità di organizzare una campagna nazionale credibile sono svanite. I grandi finanziatori si sono già impegnati, compreso quel gruppo di milionari pro Christie che, dopo il «no» del governatore, si è comodamente riposizionato su Mitt Romney.
Il governatore del Texas Rick Perry era l'uomo che avrebbe dovuto scalzare Romney dal ruolo di favorito, e per qualche settimana c'è anche riuscito. Perry sembrava l'unico dotato di argomenti per tenere sotto la stessa tenda i patriarchi del partito e gli antistatalisti dei Tea Party, l'establishment e i ribelli, un'impresa riuscita soltanto a Ronald Reagan e a George W. Bush. Ma sono stati sufficienti un paio di dibattiti televisivi (il prossimo è martedì) per sopire gli entusiasmi. Perry non è sembrato all'altezza del compito, i sondaggi sono in picchiata e adesso è stato superato da Herman Cain, il fondatore della catena The Godfather Pizza.

Perry resta comunque l'avversario principale di Romney, anche per le maggiori capacità di finanziamento rispetto agli altri.
Il ruolo di favorito è di nuovo di Romney. L'ex businessman mormone è ormai il candidato inevitabile, l'alfiere della Right Nation che però non riesce a scaldare i cuori e le menti della base elettorale, dei big del partito, degli intellettuali conservatori. A partiti invertiti si sta ripetendo la campagna del 2004. Allora c'era un presidente, Bush, molto criticato e indebolito dalle polemiche. I democratici trascorsero l'estate e l'autunno precedente le primarie del 2004 a cercare un'alternativa al loro candidato inevitabile, il senatore John Kerry, anch'egli del Massachusetts come Romney. Il movimentista di sinistra Howard Dean aveva entusiasmato i ragazzi organizzati su Internet, il neopopulismo centrista di John Edwards aveva affascinato gli intellettuali delle due coste, ma alla fine prevalse il candidato mediano, quello più sicuro, quello privo di posizioni estremiste e urticanti, l'unico che non avrebbe alienato i moderati e gli indipendenti il giorno del voto. John Kerry era noto per una serie di ondivaghe prese di posizione (flip, flop), a cominciare dalla guerra in Iraq, ma tutto sommato era un candidato serio, preparato, affidabile. Il ritratto di Kerry 2004 è identico a quello di Romney di quest'anno.

Romney è in corsa per la presidenza da quattro anni, da quando si è candidato alle precedenti primarie ed è stato sconfitto da John McCain. Da quel momento non ha smesso di girare il paese, di ricalibrare la sua organizzazione, di affinare la raccolta fondi. Quattro anni dopo, Romney è un candidato migliore, più sicuro, con una proposta politica più definita e con maggiori capacità comunicative. Non si è fatto mancare altri flip flop, altri cambiamenti di posizione per inseguire i sondaggi, e non è mai riuscito a togliersi l'imbarazzo di aver ispirato l'Obamacare, la detestata riforma sanitaria del presidente, con la sua legge di estensione universale della copertura sanitaria approvata ai tempi in cui era il Governatore del Massachusetts.
Anche sui temi della politica estera, Romney ha sbandato. L'anno politico è iniziato con una sua posizione in sintonia con la tradizionale ala isolazionista del mondo conservatore e con la richiesta di disimpegno dall'Afghanistan. Ora, grazie a una rinnovata squadra di consiglieri e intellettuali dell'era Bush, si propone come il campione dell'eccezionalismo americano, come il presidente del Nuovo Secolo Americano, come il continuatore di una politica estera a metà tra il classico nazionalismo conservatore e l'idealismo neoconservatore. Vedremo se durerà, con Romney non è detto. Ma ora, dopo il discorso pronunciato ieri in South Carolina, Romney è ufficialmente il candidato dell'ala pro America della già molto patriottica politica americana. Il paradosso per Romney è che oggi l'alfiere di questa politica estera liberale, ma aggredita dalla realtà mediorientale, è l'attuale Comandante in capo Barack Obama.

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