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Questo articolo è stato pubblicato il 17 ottobre 2011 alle ore 08:18.

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Le piccole imprese italiane si stanno organizzando su vari fronti per contrastare i vincoli strutturali che incontrano sullo scenario italiano e globale. Dopo un decennio in cui il bonus dell'euro sembrava comunque acquisito per sempre (con più bassi tassi d'interesse e rivalutazione dei patrimoni aziendali e personali, in primis), le tempeste finanziarie agostane hanno ulteriormente acuito i sentimenti di urgenza e responsabilità rispetto alle scelte da intraprendere e alle richieste da avanzare agli interlocutori.

Già a partire dalla crisi del 2008-2009, la piccola industria si è mossa per sollevare alcuni temi-chiave che poi tutto il sistema italiano ha fatto suoi: quello della moratoria sui prestiti bancari alle imprese e quello dei ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione. Con risultati assai diversi, occorre dire, e non è un caso.

La moratoria, negoziata prima con singoli istituti bancari e poi estesa - sempre su base volontaria - con un avviso comune all'intero sistema creditizio e produttivo, ha portato a circa 220mila interventi di rinegoziazione dei prestiti, che hanno riguardato linee di credito per oltre 60 miliardi di euro. Una riserva di ossigeno per la cassa delle imprese sottoposta allo stress della contrazione del reddito nazionale (-5%) e delle esportazioni (-19%).

Le esortazioni a ridurre i tempi dei pagamenti della pubblica amministrazione (oltre 70 miliardi di crediti vantati dalle imprese) hanno invece prodotto poco, se non un richiamo dell'Unione europea per sollecitare la riduzione dei ritardi. Non è un caso, perché lo Stato comunque risparmia risorse posticipando il saldo dei suoi acquisti, e ciò fornisce un piccolo contributo al bilancio della pubblica amministrazione.
E qui arriviamo al tema cruciale: la consapevolezza che lo sviluppo economico italiano sempre meno si potrà alimentare con il volume della spesa pubblica, mentre si dovrà puntare sulla sua qualità, nonché su altri contributi non-monetari che la pubblica amministrazione può fornire. La piena coscienza di questo stenta ancora a farsi largo tra le nostre classi dirigenti, nessuna esclusa. Ma il tempo è più che maturo, qualcuno sostiene quasi scaduto, perché ciò avvenga.

Tornando alla piccola industria, le imprese stanno attivamente cercando di superare due grandi vincoli che hanno: quello dimensionale e quello della rapidità di reazione specie sui mercati lontani, dove le piccole incontrano maggiori difficoltà.

C'è un fermento importante, quindi, attorno a strumenti quali le Reti d'impresa, o i Consorzi per l'export (è di qualche giorno fa il Forum annuale a Firenze). Ma nel far questo devono riflettere bene su quali interventi chiedono alla politica, proprio per contribuire alla consapevolezza a cui accennavamo sopra. Da noi, per ogni 5 euro di sussidi più o meno discrezionali alle imprese, il costo per il contribuente (quindi anche le imprese stesse) è maggiore di 5, con la differenza da addebitare alla voce costi della politica estesi alla macchina della pubblica amministrazione. Dal momento che la valutazione imparziale non è esattamente tra le prerogative del nostro sistema, ogni sussidio "mirato" rischia di produrre un cortocircuito tra funzionari pubblici e rappresentanze dell'impresa o del lavoro, dove si alimentano, nella migliore delle ipotesi, scelte non sempre lungimiranti e, nella peggiore, favori incrociati. Da noi, la storia delle "cabine di regia" non è esattamente luminosa: il rischio è che - magari per ascoltare giustamente le istanze che provengono dall'economia e dalla società - si sprechi tempo prezioso per le imprese, e si sa che per esse il tempo costa quanto il denaro.
Rinnovare la forma giuridica dei Consorzi ampliando il loro raggio d'azione dall'export alle diverse forme di internazionalizzazione è una richiesta che va nella direzione giusta, come quella di potenziare le Reti d'impresa, facendone un soggetto interlocutore della pubblica amministrazione e delle banche. Ma occorre convincersi che il contributo dello Stato allo sviluppo del Paese, in questa fase e anche in futuro, sarà nel migliorare l'efficienza di quello che la pubblica amministrazione fa e nel qualificare una spesa pubblica che è già metà del Pil.

Piuttosto che inventare nuovi sussidi che rischiano di alimentare il potere delle burocrazie pubbliche sulle imprese e intrecci perversi tra i due mondi, meglio sarebbe destinare a minori imposte ogni euro recuperato da un sistema di incentivi assurdo e farraginoso (ogni regione ha decine di incentivi ad hoc per le imprese). In questo modo si potrebbe almeno avviare un processo di transizione del sistema fiscale verso una minore tassazione di persone e imprese, che è tra le richieste del mondo industriale.

Insomma, se i sussidi regionali vengono alimentati con l'Irap, hanno davvero senso? E meno frammentazione degli interventi non consentirebbe di vincolare meglio le amministrazioni pubbliche a obiettivi misurabili a scadenza, per sottrarle ai tira-e-molla della politica?
Domande sulle quali è tempo che tutte le classi dirigenti si interroghino con rigore intellettuale e senso di responsabilità.
smanzocchi@luiss.it
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