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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2011 alle ore 08:30.

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Tre linee di fustigatori, ovvero la massima difesa. David Cameron ha adottato "three-line whip" per far fronte alla più decisa ribellione di deputati Tory euroscettici che abbia mai vissuto. Non solo lui personalmente, ma il partito nella sua storia recente: almeno 80 deputati conservatori si sono rivoltati alla volontà del premier.

Il precedente più clamoroso risale ai primi anni Novanta quando solo una quarantina di deputati si opposero alla volontà dell'allora premier John Major. David Cameron ha usato il pugno di ferro per far fallire la mozione parlamentare (111 favorevoli, quasi tutti Tory, 483 contrari) favorevole a un referendum per staccare Londra da Bruxelles presentata dalle falangi antieuropeiste dei conservatori.

Esito devastante per la credibilità del premier (si prevedeva l'ammutinamento di 50 deputati Tory), ma la sconfitta della mozione era stata largamente prevista. E non solo per l'efficacia della "frusta" - come il lessico di Westminster definisce la disciplina parlamentare di partito - mobilitata da Cameron.

Hanno votato contro i deputati laburisti e soprattutto i liberaldemocratici, partner di governo, da sempre la forza più eurofila della Camera dei Comuni. Eppure il danno resta. Il voto ha esposto le faglie idelogiche che attraversano la coalizione, imponendo al premier di affidarsi al sostegno di forze esterne a un partito, il suo, che s'è risvegliato dilaniato da una disputa antica. Il "che fare?" verso l'Europa è riemerso con tanta virulenza nell'animo dei conservatori da spingere deputati a sfidare l'ordine interno più severo, scambiando ogni ambizione politica con l'emarginazione a cui la disubbidienza li condannerà.

Londra è chiusa in un vicolo senza uscita, realtà illuminata, come mai prima d'ora, dal voto di ieri. L'idea di un referendum sulla permanenza britannica nella Ue ha, infatti, svelato la mano impossibile che il Governo è costretto a giocarsi. Da un lato deve invocare una soluzione al caos dell'euro auspicando forme crescenti di integrazione per i partner della moneta unica. E deve farlo per il semplice motivo che lo sviluppo economico del Regno di Elisabetta dipende da partner capaci di assorbire il 50% dell'export britannico. Dall'altro lato è consapevole che un'Eurozona più compatta e unita spingerà la Gran Bretagna ai margini della Ue, condannandola a una pericolosa impotenza.

Londra vede i fantasmi di un direttorio franco-tedesco, mettendo a rischio autonomia e solidità della City, motore primo dell'economia del Regno. Per questo i deputati euroscettici fremono, chiedendo di riportare sotto la sovranità nazionale poteri delegati a Bruxelles. Se in seguito alla crisi dell'euro ci sarà una riforma dei trattati anche il primo ministro - lo ha confermato ieri - pretenderà di rinegoziare la posizione di Londra. Fino ad allora resterà attendista. I Tory non lo seguono compatti. A placare il nazionalismo degli euroscettici non è neppure bastato il pressing che Cameron ha esercitato su Nicolas Sarkozy per garantire voce ai membri Ue anche nell'Eurogruppo. Una pressione che si è fatta screzio, spingendo il presidente francese a rispondergli con schiettezza molto poco diplomatica: «Sono stanco di voi inglesi che odiate l'euro, ma non la smettete mai di dirci cosa dobbiamo fare».

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