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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2011 alle ore 06:38.

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Il giornalismo vale ancora la pena? Se lo domanda Mario Morcellini nell'intervento contenuto nell'ultimo numero di Aspenia, dedicato a Media 2.0 Potere e Libertà. La preoccupazione principale che emerge dal volume, in realtà, è la difesa dell'individuo e della sua privacy alle prese con un mondo digitale connesso all time, dove «non è più soltanto Dio (per chi crede) a osservare e a conservare memoria infallibile di ogni nostro atto o pensiero», scrive Marta Dassù nella sua introduzione, come argomenta, con ironia Luca Josi.

L'altro grande interrogativo riguarda l'evoluzione dei media verticali, gerarchici e l'effetto per la coesione sociale del loro progressivo ridimensionamento. In una realtà globale digitale dove molti, su Aspenia, mettono in guardia dall'idealizzare un web "liberatutti". Secondo Peppino Ortoleva la Rete è sì innovazione, socialità alternativa e secondo mercato dove ridurre i costi di vita, ma, anche, «possibile luogo di fuga», a partire da comportamenti che stabiliscono vere e proprie dipendenze.

Tutto ruota attorno al futuro del web, in ogni senso. Dennis Redmont fa il punto sul dilagare del "giornalismo fai da te" ma anche dei "redattori aziendali". Nel web la retribuzione dipende dalle pagine visualizzate dagli utenti - e trionfano precarietà e discontinuità - mentre nascono «nuovi mestieri giornalistici». L'effetto è, tra l'altro, un impoverimento «del dibattito pubblico». Non è una riflessione autoreferenziale: in Italia Mario Morcellini denuncia la diffusione «di un'ignoranza collettiva» diversa dal passato, «matrice profonda del populismo». «È necessario registrare quanto la comunicazione abbia finito per essere l'alibi dell'ignoranza» con il «ruolo della televisione nella vittoria di culture ipersemplificate. La politica ha perso perché il modello di società che ha vinto non sembra aver bisogno della politica. E sembra aver sempre meno bisogno anche di scuola e Università».

Il giornalismo, in questo contesto, vive una profonda crisi di reputazione e identità. Una sintesi degli interrogativi sollevati da Aspenia è quella offerta da Bill Emmott ragionando attorno allo scandalo Murdoch-News of the World: «Come tutelare il principio di responsabilità e la divisione dei poteri in una democrazia moderna, in cui la stampa è drogata di tecnologia? Come regolamentare i mezzi di comunicazione in questa nuova era digitale, in modo da garantire, al tempo stesso, la privacy, la responsabilità dell'establishment e la piena tutela della libertà di parola?». La Rete, intanto, mette in ginocchio le finanze dei media, ma, segnala Mario Platero, «si stima che nel 2020, 100 milioni di americani avranno strumenti simili all'iPad e ancor più avanzati, in grado di portare in diretta il segnale delle reti televisive».

Ha ragione allora Walter Isaacson a parlare di «crisi di crescita che, se osservate con ottica di lungo periodo, non dovrebbero preoccuparci. L'Huffington Post è nato come aggregatore di notizie altrui... Ora ha costruito la sua redazione e sta sviluppando una sua attività originale di reporting»? Ad avere maggiori problemi sarà allora la tv più che la stampa, con i palinsesti «travolti dal Web», secondo Isaacson? O l'offerta, come scrive Luca De Biase «si adatta sempre più chiaramente alla domanda... Nell'ecosistema dell'informazione i confini tra i mezzi si confondono... Vincono i mezzi che meglio collaborano con gli altri»? La televisione resta il mezzo dominante ma, da oggi, «ha un ruolo relativo a un insieme mediatico più grande di lei».

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