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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2011 alle ore 08:24.

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Qualche anno fa erano i cattivi dell'amministrazione Bush, i falchi della destra israeliana e i famigerati intellettuali neoconservatori a sostenere che l'Iran si stesse dotando dell'arma nucleare e che sarebbero stati guai per tutti. Ora, con qualche anno di ritardo, a ripetere le stesse cose sono i buoni, i ragionevoli, i presentabili in società. Addirittura tre Nobel per la Pace. Gli ayatollah islamici sono a un passo dal costruirsi le testate nucleari, sostiene improvvisamente l'Aiea, l'Agenzia atomica delle Nazioni Unite già insignita del premio Nobel per la Pace nel 2005 anche per aver contenuto, si diceva allora in polemica con Bush, il progetto nucleare iraniano.

Un altro Nobel per la Pace, il presidente laburista israeliano Shimon Peres, insignito dell'onorificenza nel 1994, spiega che la possibilità di un attacco militare contro l'Iran è molto vicina, a causa dell'irreversibile corsa islamista verso la bomba e della retorica sulla cancellazione dell'entità sionista dalla cartina geografica.

Poi c'è Barack Obama, Nobel per la Pace 2009: «La politica iraniana di Obama – ha scritto Fareed Zakaria sul Washington Post – è molto simile a quella di George W. Bush». Il presidente è impegnato in una difficile campagna di rielezione che potrebbe ulteriormente complicarsi se a novembre 2012 si dovesse presentare agli elettori avendo consentito all'Iran di diventare una potenza militare nucleare. «Un Iran armato con il nucleare è inaccettabile», aveva promesso Obama. Il punto centrale della sua politica estera, esplicitato nel famoso e male interpretato discorso del Cairo del 2009, era l'abbandono della politica del regime change e il rilancio del dialogo con il regime di Teheran, al fine di ristabilire un rapporto di fiducia e di trovare un accordo pacifico sul nucleare civile.

Ora Obama si trova nell'imbarazzante situazione immaginata tre anni fa dal suo ex avversario John McCain: «Peggio di un'azione militare contro l'Iran c'è solo un Iran dotato di armi nucleari».

Qual è, dunque, la strategia di Obama, dopo l'illusione della politica della mano tesa e la dura realtà nucleare svelata dal rapporto Onu? La Casa Bianca sta cercando di applicare l'ormai famosa «dottrina Obama»: guidare il mondo da dietro le quinte, tenere a distanza i riflettori e colpire senza pietà.

Il New York Times, domenica, ha raccontato in un lungo e drammatico articolo «la guerra segreta con l'Iran», una riedizione della Guerra Fredda con tanto di basi segrete per i droni, di batterie antimissile installate nei Paesi arabi alleati e di navi da guerra nel Golfo Persico. A settembre si è scoperto che Obama ha fornito a Israele le potenti bombe anti bunker, capaci di colpire in profondità e di raggiungere obiettivi nascosti sottoterra come le centrali nucleari iraniane (Bush ne aveva negato la fornitura per timore che Israele le usasse). Il Pentagono ha fatto sapere di aver richiesto l'autorizzazione per condurre operazioni militari segrete in Iran. A luglio, nel giro di poche ore, quattro big dell'amministrazione hanno accusato ufficialmente e in modo circostanziato l'Iran di uccidere i soldati americani in Iraq e in Afghanistan. Negli stessi giorni gli obamiani hanno formalmente imputato l'Iran di aver costituito un'alleanza strategica con al Qaeda. Il Times ora intravede una mano americana dietro il virus Stuxnet che ha mandato in tilt i computer delle centrali iraniane e scrive di un nuovo Stuxnet 2.0, una versione aggiornata e più efficace della sofisticata arma informatica.

Qualsiasi cosa decida, Obama rischia di sbagliare. La tentazione è di «leave it to Bibi», di lasciare che se ne occupi il premier israeliano Bibi Netanyahu, secondo il consiglio pilatesco dello stratega liberal Kenneth Pollack e sul modello Sarkozy-Gheddafi. Ma l'Iran non è la Libia, leading from behind è impossibile. Obama sarà costretto ad esercitare la leadership in prima persona, secondo il dettato della frase che Harry Truman teneva in bella vista sulla scrivania dello Studio Ovale: «The buck stops here», le decisioni si prendono qui e se ne accetta la responsabilità.

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