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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2011 alle ore 08:05.

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Il governo di Mario Monti deve ancora nascere, ma è già in luna di miele con l'opinione pubblica e con le cancellerie estere. Quello del neosenatore a vita è, o meglio sarà, il «governo del presidente» nel senso più puro del termine: voluto, sostenuto e tutelato a ogni passo dal capo dello Stato.
E infatti ieri, mentre gli «spread» finalmente calavano un po', il presidente degli Stati Uniti manifestava a Napolitano la sua soddisfazione. Per la precisione, Obama esprimeva all'interlocutore italiano «fiducia nella sua leadership», confermando un rapporto di stima che è una delle chiavi di lettura per capire le vicende degli ultimi due anni.
Al tempo stesso anche la cancelliera tedesca Angela Merkel si rallegrava: l'Italia sta riguadagnando credibilità. In altre parole, sembra che l'attesa per Monti sia quasi spasmodica. Vi si mescolano sentimenti diversi. C'è il sollievo per l'uscita di scena di un premier da tempo inviso ai nostri partner e la speranza che il nuovo governo, con tre o quattro mosse azzeccate, rientri nei binari dell'Unione, allontanandosi da ogni rischio greco.

Ci si aspetta insomma che Monti recuperi il terreno perduto negli ultimi anni. Egli stesso si dichiara consapevole che «c'è un enorme lavoro da fare», a cominciare dall'attacco alla giungla dei «privilegi». Come dire che il programma dell'esecutivo è ormai in bozza e non è poco ambizioso. Del resto, oltre due ore di colloquio ieri sera al Quirinale dimostrano quanto sia concreto in questo passaggio ancora ufficioso l'impegno dei due uomini. Massima determinazione, massima coesione.
Tutto bene, allora? Non proprio. La luna di miele in corso non riguarda la politica. Sotto l'omaggio dovuto al presidente e alla personalità da lui scelta, si nascondono frizioni e inquietudini da non sottovalutare. Certo, la maggioranza sarà vasta, abbraccerà quasi tutto il Parlamento salvo i dipietristi e la Lega (ma nelle ultime ore Bossi ha mitigato l'ostilità del Carroccio al governo tecnico). Persino Vendola, esterno al Parlamento, è cauto. Eppure proprio l'ampiezza dei numeri suscita qualche sospetto.

Più che di larghe intese, si deve parlare di una convergenza senza veri accordi fra i partiti: un obbligo imposto dalle circostanze. E questo vale soprattutto per il Pdl, dove Berlusconi ammette a fatica: «non possiamo fare altro che sostenere Monti». Ma il Pdl è percorso da un profondo nervosismo. Chiede tutele e garanzie sui nomi dei ministri, parla come se Monti dovesse negoziare le poltrone. L'insidia è notevole: se il Pdl s'impunta sui nomi, anche il Pd dovrà fare lo stesso; perchè non è credibile che l'esecutivo possa nascere con una rappresentanza politica del centrodestra e solo tecnica del centrosinistra. Infatti Bersani sta dicendo che nessun nome del vecchio governo dovrebbe affiancarsi a Monti. E Casini, prudente, ha scelto di rimettersi al capo dello Stato per la scelta dei ministri, tecnici o politici che siano. In questa fase il rischio dei veti incrociati può essere fatale.
Non a caso una vecchia regola della Prima Repubblica ammoniva che, nella tasca del presidente incaricato, la lista dei possibili ministri scotta: diventa infuocata man mano che passano le ore o i giorni. E dunque si tratta di sbrigarsi a far giurare i neoministri, prima che i partiti e le correnti rafforzino le loro linee di resistenza. Oggi il quadro è diverso, ma è bene non farsi troppe illusioni. Monti non tratterà con i partiti e la posta in gioco è troppo alta per contemplare il rischio di fallire. Però il governo, che avrà un profilo tecnico accentuato, non potrà ignorare un'esigenza di equilibrio politico generale.

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