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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2011 alle ore 08:42.
L'ultima modifica è del 11 novembre 2011 alle ore 08:56.

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È vero che gli impegni italiani in Europa (e nel mondo) saranno riscritti da cima a fondo, e in tutta urgenza, dal nuovo governo guidato dal neo senatore a vita Mario Monti e che, dunque, la pressante richiesta di chiarimenti (scadeva oggi) della Commissione europea sul l'azione intrapresa dal governo Berlusconi si scolora.

Ma è altrettanto vero che quelle cinque cartelle articolate in 39 punti restano agli atti come un documento a suo modo eccezionale. Un lascito che certifica a suon di "cortesemente" non solo il precipizio di credibilità nel quale era sprofondato il quarto esecutivo Berlusconi ma anche lo stato di un Paese storicamente bloccato, prigioniero, come le ha definite Mario Draghi, di "robuste coalizioni distributive" e di un deficit decisionale che ne amplifica i difetti e ne minimizza i pregi. Impedendo la crescita.

Quasi di colpo, sotto la grandinata di una crisi non a caso "sovrana" e che lega il destino dell'Italia a quello dell'euro e viceversa, il Paese bloccato riviene ora a galla, si mostra per quello che è e presenta il conto dei suoi errori, presenti e passati. «C'è un lavoro enorme da fare», osserva Monti. Enorme, sì, come il debito pubblico di 1.900 miliardi che ci trasciniamo dietro assieme ad una quantità altrettanto enorme di problemi lasciati marcire per decenni all'ombra di dibattiti tanto rissosi quanto inconcludenti.

Da dove cominciamo, dalla sostenibilità cosiddetta di "lungo periodo"? Dalle pensioni e dalla sanità che esplodono negli anni Settanta ed Ottanta senza alcun rispetto degli equilibri finanziari futuri? Tra il 1964 ed il 1972 la crescita della spesa pubblica rispetto al Prodotto interno lordo passa dal 27% al 37% e dal 1969 le entrate non riescono più a seguire le spese.

Tra il 1970 (nascita delle Regioni) e il 1990 la spesa statale arriva al 53% del Pil e il welfare "all'italiana" allarga il suo perimetro distribuendo risorse a cittadini ed imprese senza creare né vero sviluppo né vera solidarietà. Uno dei più citati parametri europei di Maastricht (1992), quello che stabisce il tetto del 60% del rapporto tra debito pubblico e Pil, noi lo avevamo già raggiunto nel 1982.

Si potrebbe continuare a lungo, in un'elencazione di "sforamenti" e disastri industriali pubblici e anche privati, agguati corporativi, governi che si rincorrono ed alcune pagine di successo (poche, ma molto significative: l'adesione al Sistema monetario europeo alla fine degli anni Settanta, la svolta dei governi Amato e Ciampi nel 1992 e nel 1993, l'entrata nell'euro col primo governo di Romano Prodi). Potremmo ricordare, a proposito delle riforme del mercato del lavoro, che il dibattito, tuttora aperto e difficilissimo, sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (nato nel 1970, ben vent'anni prima della legge Antitrust del 1990) scatta nel centrosinistra a metà anni Novanta: il disegno di legge di riforma di Franco Debenedetti sulla base degli studi di Pietro Ichino è del 1997, un altro testo di riassetto, quello di Tiziano Treu, è del 2000. Sappiamo cosa è accaduto appena dopo (l'omicidio di Marco Biagi, autore del "Libro bianco" sul lavoro del ministro del Welfare Roberto Maroni, secondo governo Berlusconi) e cosa non è accaduto, in termini generali di deficit riformista e di veti incrociati a sinistra, fino ai confronti-scontri di queste settimane.

L'Italia non cresce da quindici anni, il suo Mezzogiorno, povero di investimenti utili, è a rischio tsunami demografico, la pressione fiscale su lavoro e imprese è altissima, le liberalizzazioni e le privatizzazioni sono al palo, resiste una diffusa cultura antagonista al mercato e alla concorrenza che attraversa tutti gli schieramenti politici. È impossibile pensare che un giovane di talento alla Steve Jobs o alla Bill Gates possa farsi largo, in Italia, con eguale fortuna: magari, non riesce ad aprire il garage, tanto per iniziare, per problemi burocratici.

Piuttosto, dobbiamo contabilizzare un esercito di giovani che è fuori sia dal mercato del lavoro sia dai circuiti della formazione. L'Italia figura nella casella numero 80 (la Spagna è alla 49) su 183 Paesi nella classifica "Doing business", è alla posizione 147 per il "rispetto dei contratti" (Spagna 52) e alla casella 128 nel capitolo "pagare le tasse" (Spagna 71). A sua volta, la Banca mondiale ha calcolato che negli ultimi dieci anni tutti gli indicatori di governance del Paese - tasso di legalità, controllo della corruzione ed efficienza del governo (quest'ultima indicata peraltro in ripresa dal 2008) - sono risultati in costante declino. Siamo a livelli nordafricani e abbiamo fatto peggio della stessa Grecia. Mentre il costo totale della macchina politica centrale e periferica, ha calcolato il nostro giornale, ammonta a circa 23 miliardi.

Dietro l'ormai famoso "spread" non c'è l'avventura di un giorno o di un mese. E nemmeno il fallimento conclamato di una stagione politica, quella di Berlusconi di nuovo uscito trionfante dalle elezioni del 2008, spiega evidentemente da solo il blocco di un Paese ricco di energie, parsimonioso nel privato e dotato di un solido sistema bancario ma incapace di riprogettarsi in termini di comunità politica e sociale per tornare a crescere.

Appunto, "c'è un lavoro enorme da fare". E, "cortesemente", è bene esserne tutti consapevoli.

guido.gentili@ilsole24ore.com

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