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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2011 alle ore 07:58.
L'ultima modifica è del 15 novembre 2011 alle ore 07:58.

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Galleggiamo in una zona insidiosa, quella tra l'antefatto ed il fatto. Il primo, dopo le dimissioni del quarto Governo Berlusconi e al termine delle consultazioni-lampo del Quirinale, è l'incarico per formare un Governo conferito dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al senatore a vita Mario Monti.

Il secondo, il fatto, è un Governo che governa dopo aver ottenuto la fiducia del Parlamento, la più larga e convinta possibile, per un progetto combinato di risanamento e crescita, come ha spiegato lo stesso Monti.
Sappiamo che sui mercati finanziari un positivo "effetto-Monti" c'è stato alla fine della settimana scorsa, dopo che i prezzi dei titoli italiani erano tracollati, i rendimenti avevano sfondato quota 7% e lo spread rispetto ai Bund tedeschi aveva scavalcato la soglia dei 550 punti. Non sapevamo invece come quegli stessi mercati si sarebbero comportati ieri, al netto del pur forte incoraggiamento politico subito arrivato dagli Stati Uniti, dalla Germania, dalla Francia, dalla Commissione e dal Parlamento europei.
Dopo una partenza buona, l'inversione di rotta (in corrispondenza dell'asta dei BTp a cinque anni piazzati al rendimento record del 6,29%) è stata netta. La Borsa ha perso il 2% e lo spread con la Germania ha chiuso a 492 punti dopo aver ri-superato quota 500.

È vero che i rendimenti dei Bonos spagnoli per la prima volta da agosto sono tornati sopra 6% (spread con i Bund tedeschi a 420) e che la tensione si rafforza anche rispetto alla Francia. Ma è un fatto che la pressione a vendere titoli italiani resta molto forte. E che la strada per l'Italia – in un'Europa senza smalto e governance unitaria dove Germania e Francia proteggono innanzitutto i loro interessi – rimane in salita.
Ieri il presidente Napolitano ha parlato di «crisi delicatissima e cruciale». È un'istantanea che coglie questo momento di passaggio che prelude alla formazione del governo a guida Mario Monti e alla stesura del programma che verrà presentato al Parlamento per ottenere la fiducia. Siamo a metà del guado, a mercati sempre aperti, e senza un'assunzione di responsabilità chiara da parte di tutti i giocatori in campo - a partire dalla stessa comunità civile, che deve guardare in faccia la realtà per quella che è - non c'è "effetto-Monti" che possa supplire ad un deficit di coesione politica e sociale e ad uno stallo decisionale.

Proprio Monti è il primo a saperlo, e ieri ha sia confermato l'arco temporale, e per lui irrinunciabile, del suo impegno (fino alla scadenza della legislatura, nel 2013) sia evitato di «drammatizzare» il problema dell'ingresso in prima persona dei politici nel governo in via di costruzione, che comunque sarà «convincente ed efficace». Ma è ovvio che il presidente incaricato reputi altrettanto indispensabile ed irrinunciabile il sostegno dei partiti nel momento in cui agli italiani si chiedono sacrifici.
Alla politica, che continuamente rivendica il suo primato rispetto al tambureggiante responso giornaliero dei mercati, spetta un compito fondamentale, di ricucitura delle contrapposizioni e di scossa reattiva per il futuro. Se siamo arrivati a questa strettoia è perché non ha saputo fare il suo mestiere, a cominciare dal governo e della maggioranza che nel 2008 avevano preso le redini del Paese.

E colpisce che in questa fase del tutto speciale sia forte la tentazione ad acquattarsi all'ombra del "passo indietro", in attesa di tempi migliori e lasciando ad un esecutivo tecnico, solitario in mezzo alle macerie, l'onere di un riaggiustamento riformista che non ha precedenti né per quantità né, soprattutto, per qualità, dovendosi ridisegnare il profilo ed il perimetro dello Stato.
Per di più, come non bastassero le iniziative tipo la riapertura del Parlamento della Padania, oltre ai veti incrociati preventivi su questo o quel nome che affiora come possibile ministro, si discute, invece del "che fare" (sul quale emergono vistose divisioni, come quelle sulle riforme del fisco, delle pensioni e del fisco) sui tempi del mandato da assegnare al governo Monti. Quasi fosse padrona, la politica italiana, dell'orologio della crisi europea, e quasi non ci si rendesse conto che circa 890 miliardi di debito (il 47% del totale, 1900 miliardi) sono detenuti all'estero e che le banche europeee detengono titoli italiani per un ammontare di 300 miliardi in scadenza nel 2012. Infine, a questo livello di rendimenti, basterebbe al sistema politico esaminare la condizione di sostanziale blocco del credito con il quale banche ed imprese fanno i conti per convincersi della situazione di emergenza in cui l'Italia si trova.

Può apparire ripetitivo, ma "fare presto e bene" il governo, con un convinto sostegno della politica, resta l'unica opzione possibile. Invece, i giochetti e le piccole furbizie di un giorno (e di un voto) archiviamoli una volta per tutte.

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